MUSEI CIVICI - QUALE FUTURO

MUSEI CIVICI - QUALE FUTURO

mercoledì 30 ottobre 2013

MUSEI E FONDAZIONI

Musei e fondazioni (non solo bancarie)

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Giovanni Losavio
Italia Nostra - Presidente sez. di Modena

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E’ bene subito chiarire. Il denominatore comune è labile. Fondazione. Perché una cosa è il modello di gestione dal quale le amministrazioni pubbliche e anche comunali sono tentate per un più sciolto esercizio delle funzioni proprie dei loro musei. Oggi pure con il dichiarato proposito di eludere le ferree griglie del patto di stabilità e perfino la pinacoteca di Brera è destinata, per prescrizione legislativa diretta al ministro (come “urgente misura per la crescita del paese”) a trasformarsi entro il 2013 da pubblico istituto di cultura in privata fondazione, ma promossa a Grande Brera.E altra cosa sono le fondazioni di origine bancaria, al cui sostegno finanziario i musei civici hanno titolo (si vorrebbe preferenziale) per accedere e così misurare i loro programmi. Le fondazioni che sono prese talvolta dalla ambizione di far in proprio musei per la città o che si sentono comunque legittimate da ampie disponibilità finanziarie a farsi soggetti attivi di nuove impegnative offerte culturali. Per più ragioni entrano quindi in relazione con i musei civici . Questo il criterio di collegamento non solo nominale implicito nel titolo che ho suggerito per il programma - invito.
Dunque le fondazioni di origine bancaria: sono la continuazione ideale degli istituti bancari pubblici (innanzitutto le casse di risparmio) costretti per legge (in adempimento a direttiva europea) a conferire l’azienda di credito a una società propriamente bancaria. Si sono così liberati di questo compito e, privatizzati,  sono rimasti titolari e  gestori di consistenti patrimoni, quelli appunto esistenti nel momento in cui l’ente pubblico fu trasformato in fondazione di diritto privato. Perciò fondazioni di diritto privato, le fondazioni cassa di risparmio (come ripetutamente ha sottolineato la stessa corte costituzionale, escludendo che le loro attività rientrino in una nozione, per quanto lata sia, di pubblica amministrazione in senso anche soltanto oggettivo). Ma fondazioni private che rivendicano orgogliosamente pure nella denominazione la continuità storica con la originaria pubblica cassa di risparmio di cui sono la forzata trasformazione. La legge speciale che le regola non impedisce certo, e forse anzi implicitamente asseconda, che nella loro denominazione cada definitivamente il riferimento all’origine di banca pubblica. Generalmente mantenuto invece per fedeltà ideale all’origine.
Lo dice solennemente il primo articolo dello statuto della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna che ricorda la propria costituzione preunitaria (1837), riconosciuta dal cardinal legato e poi nel 1861 da un decreto regale. Anche la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena (ho assunto queste due fondazioni come il campione di comodo per questo mio discorso) si presenta nel primo articolo del suo statuto come derivazione dalla Cassa di Risparmio di Modena e continuazione ideale dell’ente fondazione, ancora pubblica, come sua prima trasformazione imposta dalla legge 356 del 1990. E la continuità patrimoniale è confermata nell’articolo 4 dello stesso statuto, perché il patrimonio della fondazione di oggi è costituito innanzitutto da quello dell’ente cassa di risparmio di Modena al momento della trasformazione in fondazione di diritto privato. Fondazioni di diritto privato che amministrano un patrimonio con quella inconfondibile impronta - origine pubblica e per le quali la disciplina di diritto comune delle fondazioni (quella del codice civile) ha applicazione solo residuale, perché scopi (ed ordinamento) sono definiti nella legge speciale ad esse riservata. E la ragione della disciplina speciale è facile riconoscere nella originaria formazione pubblica dei patrimoni ereditati e oggi amministrati. Le fondazioni di origine bancaria, lo dispone la legge speciale,  “perseguono esclusivamente scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico”, “indirizzano la loro attività esclusivamente nei settori ammessi”, specificamente enunciati nell’art.1, primo comma , lettera c-bis, e operano prevalentemente in quelli, non più di tre, prescelti ogni tre anni tra quelli ammessi. La Fondazione Cassa di Risparmio di Modena fissa già nel suo statuto i settori di intervento nell’articolo 4 :”La fondazione promuove e sostiene la ricerca scientifica e tecnologica, promuove e sostiene la valorizzazione dell’arte, delle attività e dei beni culturali e ambientali, promuove e sostiene le attività di rilevante valore sociale e umano nell’ambito dei settori ammessi … nel rispetto di una equilibrata destinazione delle risorse, privilegiando i settori a maggiore rilevanza sociale”. Anche la Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna enuncia nello statuto gli ambiti preferenziali del suo intervento (“di norma”) “promuovendo e sostenendo:  - la ricerca scientifica, l’istruzione e formazione, – l’arte, la conservazione e valorizzazione dei beni culturali e ambientali, - lo sviluppo economico, - l’assistenza, anche in ambito sanitario, con particolare riguardo alle categorie sociali deboli”.
 Ebbene, la comune espressione promuove e sostiene che definisce il modo in cui le due fondazioni emiliane (“in rapporto prevalente con il territorio”) “indirizzano la propria attività” nei settori prescelti sembra configurare quel tradizionale e consolidato modello di “fondazione grant–making” (è la definizione degli economisti studiosi del fenomeno) che eroga risorse a soggetti pubblici e privati non profit attivi nei settori individuati e secondo un definito criterio di stringente collegamento e solidarietà territoriali.
Certamente a questo modello le nostre fondazioni si sono attenute e si attengono nella prassi  degli interventi a favore di ricerca scientifica istruzione e formazione, assistenza anche sanitaria e sviluppo economico, riconoscendo che il ponderato programmato sostegno finanziario alle “opere” già attive in questi ambiti nel considerato orizzonte territoriale è la sola via efficace ed economicamente produttiva per il conseguimento dello scopo di utilità sociale. Piuttosto di dar vita ad autonome imprese in proprio, concorrenti con quelle esistenti, attraverso la dotazione di competenze di merito alla quale la fondazione, per i modi stessi di formazione degli organi di indirizzo e gestione, non può dirsi votata. Non credo che alle nostre fondazioni sia mai venuto in mente di costituire un proprio istituto di ricerca scientifica, di aprire una propria clinica sul modello che i medici senza frontiera intendono sperimentare  anche nel nostro stesso paese per una assistenza di soccorso non erogabile dal servizio sanitario nazionale, di costruire e gestire quella scuola materna o quella casa di riposo che non stanno più dentro il bilancio del comune.
Non è così invece per la finalità di valorizzazione dell’arte, della attività e dei beni culturali e ambientali. Le nostre fondazioni in questi ambiti che offrono occasioni di speciale visibilità e prestigio per i loro amministratori si ritengono legittimate a realizzare in proprio lo scopo di utilità sociale attraverso una diretta attività, anche con eventi di vasto richiamo (pensiamo alle mostre di riconosciuta  buona qualità cui si dedica la Fondazione della cassa dei risparmi di Forlì). O con la invenzione, qui a Bologna, di una nuova e assai onerosa struttura museale inserita per altro in un diffuso percorso culturale che si estende a luoghi salienti nella vicenda artistica della città e, nella ambizione (io credo) sbagliata di saper autenticamente interpretare il genus  bononiae, in palese alternativa al circuito dei gloriosi musei civici, essi, il vero non virtuale e labile museo della città. Ovvero dando vita a fondazioni strumentali operative (come la modenese fondazione fotografia) e addirittura assumendo con la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena un ruolo egemone nella politica culturale della città, concependo un ambizioso progetto per un nuovo polo della cultura dentro gli spazi del settecentesco ospedale di Francesco III, di recente dismesso dalla funzione sanitaria e acquistato dalla fondazione. E al  “nuovo polo per la cultura”, senza imbarazzo pubblicizzato come il Beaubourg a Modena, accedono in attitudine subordinata ministero beni culturali e amministrazione comunale. Vi saranno infatti inglobate, insieme ad altre eterogenee funzioni, le due più prestigiose istituzioni bibliotecarie pubbliche (la statale Estense e la comunale Poletti) pronte ad abbandonare il loro insediamento storico dentro il pubblico palazzo dei Musei, rinunciando al progetto, di buon senso ed economicamente sostenibile, che l’amministrazione comunale aveva concordato con il ministero, di espansione  fisiologica nella porzione retrostante dello stesso edificio liberato dalla impropria destinazione ospedaliera. Comune e ministero abbandonano il proprio meditato progetto per accedere a quello (il nuovo che avanza) della Fondazione. Salvatore Settis su La Repubblica ha parlato di privatizzazione strisciante per il conferimento delle due pubbliche biblioteche nel progetto e dentro l’edificio della privata fondazione bancaria. La Bibbia di Borso, gioiello del Beaubourg della fondazione.
 Non sarà stata certo intimidita dalla autorevolezza delle illimitate disponibilità finanziarie, ma la opinione pubblica anche quella più avvertita, è facile constatarlo, ha rinunciato a mettere in discussione le più recenti e vistose scelte  di politica culturale delle fondazioni di origine bancaria. Parrà velleitario, ma crediamo di non potere eludere il compito di affrontare, nella sede in cui discutiamo della qualità ma anche della sofferenza delle istituzioni museali civiche della nostra regione, la valutazione critica di quelle scelte. Che non ci appaiono affatto coerenti con le esigenze del territorio, alle quali le fondazioni si propongono statutariamente di corrispondere in un confermato vincolo di solidarietà ai luoghi e alle comunità sui cui risparmi si costituirono le casse di origine.  Nel panorama caratterizzato da una diffusa e strutturata offerta culturale di elevata qualità non si avverte l’esigenza di costruire nuove offerte (con iniziative che impegnano elevatissime risorse e per le quali le fondazioni non rinvengono all’interno del proprio apparato organizzativo le adeguate competenze e necessariamente si affidano a estemporanee, pur se prestigiose, consulenze esterne di merito), mentre è obbiettivamente fondata l’aspettativa, vogliamo dire la rivendicazione, di un programmato sostegno finanziario alle consolidate istituzioni culturali e specie civiche (democratica espressione delle comunità) sulle quali incidono perfino drammaticamente le attuali condizioni di sofferenza della finanza locale.
A questa crisi che le analisi della mattina hanno efficacemente rappresentato e indagato (che è crisi di risorse finanziarie piuttosto di intelligenza progettuale) le amministrazioni comunali sono tentate di sfuggire con una radicale trasformazione istituzionale che consentirebbe di eludere i vincoli del patto di stabilità, mettendo i loro musei civici dentro una privata fondazione, sui modelli sperimentati a Torino e a Venezia. Si deve riconoscere che questi controversi modelli trovano una legittimazione normativa nel codice dei beni culturali anche nella versione conclusiva (2008) dell’art.115. Pessima addirittura era quella originaria del 2004 che prevedeva come ordinaria per i comuni la gestione in forma indiretta della attività di valorizzazione dei propri istituti e luoghi di cultura, dunque dei musei, con affidamento ad enti terzi anche fondazioni, nel pregiudizio che i comuni non fossero dotati di adeguate strutture organizzative di competenze interne. Nella versione conclusiva e vigente del 2008 è rimessa alla valutazione discrezionale di stato, regioni e comuni di “ricorrere alla gestione indiretta al fine di assicurare il miglior livello di valorizzazione dei beni culturali” e la scelta tra gestione diretta e indiretta è “attuata mediante valutazione comparativa in termini di sostenibilità economico-finanziaria e di efficacia”. Sono disposizioni che intendono adeguarsi a quell’infelice assetto normativo di disarticolazione della unitaria e inscindibile nozione della tutela, con l’artificio di scorporarne una distinta funzione di valorizzazione, escogitato per definire su questa distinzione gli ambiti rispettivi di potestà normativa di stato e regioni. E se la tutela anche come funzione amministrativa è, si ragiona, di assoluta riserva dello stato e inconcepibile ne è un esercizio indiretto, lo stesso principio non vale invece per la valorizzazione la cui attività si considera oggetto pure di gestione indiretta. Sono strappi gravi nel tessuto compatto della tutela e delle sue istituzioni ai quali crediamo che i musei anche civici concettualmente resistano, opponendo il loro carattere di bene demaniale che è storicamente consolidato nel nostro ordinamento essendo riconosciuto prima del codice dei beni culturali dal codice civile del 1942.
Riferendo in consiglio comunale sulla “fondazione fotografia”, l’assessore modenese alla cultura alcuni mesi or sono annunciò che è allo studio lo sviluppo di quella stessa prospettiva per giungere alla costituzione di una “fondazione cultura” nella quale far confluire i musei civici (d’arte e archeologico) e la galleria civica.  Se le ragioni son quelle di eludere le limitazioni del così detto patto di stabilità, non valgono certo a giustificare il travolgimento di principi che crediamo fermissimi. Non superabili neppure nelle condizioni indotte dalle drastiche ma contingenti misure di contenimento finanziario e di spesa, alle quali non si deve perciò rispondere con così incisive trasformazioni istituzionali per loro natura permanenti. (E se la fondazione serve a raccogliere più libere risorse private, non si vede quale ostacolo si opponga all’attribuzione diretta di quelle risorse, se davvero   disponibili e disinteressate, alla pubblica istituzione).
Le raccolte dei musei civici costituiscono il demanio culturale del Comune e questa speciale qualificazione della “proprietà” significa non soltanto che le funzioni esercitate attraverso i musei sono essenziali ed esclusive dell’ente di appartenenza, ma innanzitutto  che i musei civici concorrono a definire la identità stessa del Comune come l’ente rappresentativo della comunità dei cittadini e sono perciò assolutamente indisponibili. Se i musei civici fossero conferiti (sia pure soltanto in uso) in una privata fondazione il Comune ne risulterebbe menomato, privato cioè di un essenziale profilo di qualità.
Già si è detto della concettualmente assurda scissione tra le funzioni di tutela e di valorizzazione, come è confermato dalla stessa gestione dei musei  civici che implica l’esercizio di compiti di tutela (pur concorrenti con quelli, primari, delle istituzioni dello stato) e son compiti che il Comune non può che esercitare in modo diretto e nella propria esclusiva responsabilità, dunque non delegabili ad una  fondazione che, se pur partecipata a maggioranza da fiduciari comunali, opera secondo modelli privatistici. I musei son fatti non soltanto dalle (demaniali) raccolte di oggetti preziosi, ma insieme dalle competenze degli operatori che si sono formate e si tramandano nel costante rapporto di studio con quegli oggetti. Un geloso patrimonio di conoscenze critiche che non può essere conferito, neppure strumentalmente, in una diversa privata istituzione, perché è essenzialmente incompatibile con ogni forma di esternalizzazione (come si dice con un brutto neologismo che ben esprime la cosa).
Sono proposizioni generali, queste, che trovano una speciale evidenza nella storia dei musei civici costituiti dall’orgoglio municipale in epoca immediatamente postunitaria come la istituzione comunitaria che assume la responsabilità di documentare il patrimonio storico e artistico della città (in una stagione anche allora di intenso e diffuso rinnovo edilizio) e di partecipare alla sua conservazione (l’istanza prima della tutela), alla promozione della conoscenza al riguardo, anche ricevendo in deposito e organizzando in progetti espositivi i materiali archeologici (di proprietà dello stato) emersi da scavi non intenzionali di ricerca. Una istituzione con piena copertura territoriale e integrata nel corpo vivo della amministrazione comunale e da esso assolutamente inscindibile. Tra comune e suo museo civico si è consolidato un rapporto di immedesimazione.
La privatizzazione dei musei civici (perché tale è il loro conferimento, come struttura operativa di raccolte e personale dedicato, in una fondazione costituita ad hoc) comporterebbe insomma una essenziale alterazione di identità della storica istituzione. Una prospettiva cui non può rimanere indifferente la regione che sui “musei e biblioteche di enti locali” mantiene per certo la potestà legislativa, in quella specifica “materia” ad essa espressamente attribuita fin nella originaria stesura dell’art.117 della Costituzione, articolata e perfino ampliata nei decreti delegati (1972 e 1978) di attuazione dell’ordinamento regionale. E’ ben vero che nella sgangherata riforma del titolo V cost., che ha introdotto un diverso sistema di riparto della potestà legislativa tra stato e regioni, quel riferimento diretto alla specifica materia è caduto, ma nella espressione “valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali” compresa nelle materie di legislazione concorrente (nelle quali alle regioni spetta la potestà legislativa nel rispetto dei principi fondamentali determinati dalla legislazione dello stato) i musei degli enti locali e il loro assetto istituzionale sono sicuramente compresi. E se il codice dei beni culturali si è proposto (art.7) di fissare i principi fondamentali in materia di valorizzazione del patrimonio culturale, non a tutte le disposizioni dei dedicati articoli 111 – 121 può riconoscersi la effettiva natura di principi fondamentali e in particolare la formulazione dell’articolo 115 e del suo contestabile comma 4,  cui già abbiamo fatto riferimento, deve intendersi nel senso che riservi un sufficiente margine alla autonomia normativa regionale a tutela della specialissima natura dei musei civici e del loro rapporto di stretta integrazione entro la struttura amministrativa dei comuni.
Nel nuovo assetto del titolo V cost. è anche caduta la corrispondenza di materia tra attribuzioni legislative e di amministrazione attiva, essendo invece le funzioni amministrative distribuite (art.118) secondo il principio di sussidiarietà verticale. Non v’è dubbio quindi che alle regioni spettino compiti di indirizzo, programmazione e sostegno finanziario nella materia di musei (e pure di biblioteche e archivi) degli enti locali. Quegli stessi compiti che la Regione Emilia Romagna nello slancio della prima fase costituente aveva affrontato con impegno riformatore, anche attraverso la costituzione dell’Istituto per i beni culturali e con l’approvazione di provvedimenti normativi per musei, biblioteche e archivi che hanno poi trovato una compiuta sistemazione nella legge n. 18 del 2000 affidata alla gestione dell’IBC, innanzitutto per la definizione degli standard di qualità. Crediamo che quella legge abbia mantenuto la sua piena validità pur nel nuovo assetto delle attribuzioni di potestà legislativa e competenze amministrative della riforma del titolo V cost., e che la sua disciplina in concreto sia in tutto conforme ai principi fondamentali della “valorizzazione” come poi definiti nel sopravvenuto codice dei beni culturali 2004 – 2008.
E nel sistema della vigente legge regionale 18 del 2000, che valorizza il ruolo istituzionale dei comuni nel sistema museale territoriale, crediamo che non possa trovare riconoscimento, anzi sia concettualmente incompatibile, il conferimento dei musei civici e di altri istituti culturali comunali in una privata fondazione. Di fronte alla prospettiva di una così radicale trasformazione istituzionale dei musei comunali non si è avvertita la voce della Regione dell’Emilia – Romagna. Mentre, esaurito il programma triennale (2010 – 2012) di interventi in materia di biblioteche, archivi storici, musei e beni culturali elaborato nel 2009 dalla giunta regionale, non risulta che sia stato provveduto al suo tempestivo rinnovo fondato sul necessario bilancio critico degli interventi attuati nel concluso triennio e dunque se ne deve dedurre che la legge 18 del 2000 sia rimasta priva di ogni sostegno finanziario. Un fermo richiamo alla  responsabilità istituzionale della Regione Emilia – Romagna (e a quella dell’IBC) credo che debba essere espresso dal convegno che oggi Italia Nostra ai musei civici ha voluto dedicare.
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