MUSEI CIVICI - QUALE FUTURO

MUSEI CIVICI - QUALE FUTURO

mercoledì 30 ottobre 2013

MUSEI CIVICI DI REGGIO-EMILIA

Il riallestimento dei musei civici di
Reggio-Emilia
Uno sguardo critico

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Claudio Franzoni
Italia Nostra - Sez. di Reggio-Emilia

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       «Possiamo essere certi che le folle accorreranno per vedere l’originale metodo di esposizione strombazzato dalla stampa e discusso ai cocktail, ma questa effimera meraviglia servirà davvero ad avvicinare l’osservatore alla meraviglia molto più durevole dell’arte?». È la domanda che si poneva Ernst Gombrich in un articolo ormai di molti anni fa dal titolo «È giusto che i musei siano attivi?» (1968) (n.1). Ed è in definitiva una delle domande che ci si è posti anche a Reggio Emilia in un dibattito che si è sviluppato nel corso del 2012, ed è ancora in corso, sul progetto di riallestimento dei locali musei civici firmato dallo studio Italo Rota. Di fatto il dibattito è stato aperto da un articolo apparso proprio su questa rivista («Taccuini d’arte», 5) di Elisabetta Farioli, a cui va dato atto di aver presentato per la prima volta con una certa ampiezza il progetto stesso, fino a quel momento mai così puntualmente descritto.

Pubblico
Si parla dunque – e da decenni, come sta a dimostrare l’articolo di Gombrich – di un problema che ha al centro due protagonisti, il museo e il pubblico; l’uno per definizione conservativo, l’altro in continua evoluzione nelle proprie fisionomie culturali, di gusti e di comportamenti. L’argomento della discussione, poi, è tanto più articolato, in quanto il piano culturale va intrecciandosi continuamente con quello politico: il museo è una delle istituzioni cardine di una città, tanto più in una città come Reggio, che già alla fine del Quattrocento si poneva il problema della conservazione delle proprie antichità (n.2). Ma limitiamoci al solo profilo culturale: perché il progetto Rota è parso discutibile e inopportuno anche da questo punto di vista?
Proviamo allora a percorrere idealmente il museo di Reggio una volta che venisse realizzato questo progetto. Davanti all’entrata troviamo dodici pilastri a ombrello di acciao inox alti tra 8 e 10 metri, «alte strutture di acciaio specchiante che riflettono immagini tratte dai materiali dei musei»; le pareti del diedro di ingresso, invece, sarebbero «rivestite da fioriti ‘giardini verticali’». Nell’uno come nell’altro caso il problema non è tanto di ordine estetico, quanto di opportunità e di utilità; per quanto riguarda la parete fiorita, una rapida consultazione con esperti del verde basta a dimostrare che si tratta di una soluzione la cui praticabilità e resa a lungo termine sono tutt’altro che scontate. In questo caso – e ancora di più in quello dei «funghi» – il problema non è se siano interventi belli o brutti, ma se siano ciò che serve ai musei civici. Si cerca di giustificare «funghi» e pareti verdi come elementi di richiamo, come mezzo di raccordo tra la piazza e l’edificio dei musei. C’è, dietro a questa ipotesi, quel punto di vista che, alla fine, guida tutta l’operazione del progetto Rota: che occorra cioè stimolare l’attenzione verso il museo, che questi elementi esterni servano insomma come punti esclamativi in grado di attirare visitatori.
Ecco che si ripresenta la questione del pubblico. Si dice che il museo deve essere «per tutti» e non solo «per gli intellettuali», gli specialisti. A dir la verità, le cifre sui visitatori annuali non sono così scoraggianti, se si afferma che il museo è «amato dalla città (31.000 le presenze del 2010)» e «frequentato dalle scuole (attraverso attività didattiche che ricostruiscono percorsi di senso tra le sue collezioni, 22.500 i fruitori nel 2010)» (n.3). Ma ammettiamo che per un museo come quello di Reggio Emilia non sia abbastanza e che si debba intercettare una fetta di pubblico più ampia. Come si entra in rapporto, ad esempio, con chi frequenta l’Università, con chi si è trasferito nella nostra città da altre zone del Paese, con la consistente componente degli immigrati e dei loro figli, con i turisti che passano per la nostra regione in treno o in autostrada? Basta questa breve immagine del possibile pubblico per capire che se una risposta ci deve essere, questa deve essere, come minimo, articolata su livelli differenti e per nulla univoca. In altre parole, può avere anche un senso un elemento architettonico come strumento di richiamo, ma è chiaro che non sarà questo a fondare un rapporto diverso tra museo e pubblico: sono i musei attivi – per usare le parole di Gombrich – la vera soluzione per raggiungere un obiettivo come questo. E attivi non nel proporre iniziative che poco o nulla hanno a che fare con il contenuto dei musei stessi, ma nel continuo concentrare l’interesse verso oggetti e opere al suo interno. A meno che non si pensi che in musei come quello di Reggio non c’è nulla di interessante per il pubblico odierno.
Detto questo, qualcosa bisognerà pur dire della parete verde e dei «funghi» sotto il profilo estetico: tanto nei materiali, quanto nella forma non hanno nulla a che fare con il resto della piazza, già per proprio conto tutt’altro che omogenea; un ulteriore elemento di discontinuità si andrebbe aggiungere all’insieme, funzionando dunque più come cesura che come raccordo. Davanti a obiezioni come queste (e a quelle che riguardano altre soluzioni dell’interno) si chiama in causa l’arte di oggi e si rivendica l’«opzione della contemporaneità», implicitamente tentando di spingere chi si oppone nell’angolo dei passatisti e dei nostalgici; ma il «contemporaneo» non è uno scudo protettivo grazie al quale qualsiasi cosa passi sotto questo segno deve andar bene, come se potesse saltare a pié pari l’ostacolo del giudizio.
Proseguiamo la nostra ipotetica visita nel museo rinnovato secondo il progetto Rota. Dal cosiddetto «diedro» si entra in un ambiente di non grandi dimensioni caratterizzato dalla presenza di un grande acquario. In tutti i musei moderni, come si è fatto più volte osservare nel corso del dibattito, gli spazi di accoglienza sono il più possibile ariosi e ampi. Qui accade esattamente il contrario, come dimostrano le tavole del progetto definitivo (n.4); si tratta in questo caso – come in altri su cui non c’è modo di soffermarsi in questa sede – di un’obiezione relativa alla funzionalità del museo. Si tratta di un aspetto secondario, di qualcosa che non c’entra col piano culturale? Come è invece chiaro, la coerenza e la funzionalità dei percorsi sono aspetti essenziali dell’efficacia comunicativa e, perché no?, della godibilità di un museo.
Ma soprattutto perché un acquario qui? Perché «lacustre»?(n.5) Quanto al contenuto non importa più di tanto: saranno ospitati «pesci di speci comuni e non esotiche», mentre «nello spazio interno vuoto [dell’acquario] sono da predisporre delle strutture per la messa in scena di oggetti, reperti e animali, uccelli imbalsamati» (n.6). Come si vede, non c’è alcun intento didattico. E allora che cosa si vuol fare con questo acquario? Si vuole «evocare il tema dell’acqua come principio della vita» (n.7). Ma qual è il compito di un museo moderno, «evocare» oppure presentare oggetti spiegandone ragioni e senso? È addirittura scontato che si possa e si debba  parlare dell’acqua in un museo che è anche un museo di scienze naturali, ma lo si deve fare attraverso «evocazioni» oppure attraverso spiegazioni ragionate (e con oggetti delle collezioni)? E poi il tema del «principio della vita» come si lega a quelli trattati nel resto delle collezioni, se non in un senso estremamente generico e ovvio?
Lo stesso modo di procedere si ritrova nell’ambiente successivo, il cosiddetto Asfalt: pareti e volte sono «rivestite con resinatura a tinta e matericità simil asfalto», mentre alle pareti ci sono «pannelli oscuranti»; a loro volte pavimenti e rampe sono «rivestiti in asfalto» (n.8). È qui che trova spazio, illuminata da led di colore rosso (n.9), la balenottera che Rota considera il «feticcio» per eccellenza del museo reggiano: dalla sostanza usata per imbalsamarla, l’architetto ha tratto l’idea della sala e del suo colore, valorizzato dall’artificio della penombra e delle luci. Un rendering mostra l’atmosfera complessiva dell’ambiente con la vetrina che dovrebbe ospitare, tra un gas che ora copre, ora rivela, una copia della Venere di Chiozza e alcuni uomini in giacca e cravatta, ma con la testa di pecora (Dolly).

Comunicazione
Soluzioni come queste, nel corso del dibattito reggiano (e non solo, come vedremo), sono state liquidate come stramberie o peggio (n.10). Quello che ho cercato di spiegare altrove (n.11) e che tento di ribadire anche in questa sede, è che, a parte l’ovvio rispetto per le idee altrui, lo sforzo da compiere è quello di inserire interventi come quello dell’acquario e, in generale, l’intero profilo del progetto di riallestimento entro un preciso sistema di pensiero.
 Sono le stesse parole di Elisabetta Farioli che ci indirizzano: quello che sta iniziando è «una sorta di percorso iniziatico tra elementi naturali e artistici con riferimento ai temi primigeni della maternità, alla nascita della storia e della scrittura, alla dimensione del tempo e della memoria di una città» (n.12). Quello che serve a un museo «per tutti e non solo per gli studiosi» – come si è dichiarato più volte – è proprio un «percorso iniziatico»? Se le parole non sono usate a caso – e non lo sono – «iniziatico» significa «esoterico», «criptico», «oscuro», «misterioso».
Proviamo a metterci nei panni, non di un generico pubblico, ma di visitatori ben precisi e possibili: un ragazzo che frequenta le superiori, un padre di 35 anni col figlio di otto, una studentessa universitaria nata in Nordafrica, un pensionato con l’amico coetaneo, un ingegnere di una città vicina che con la moglie si ferma a Reggio, un turista straniero e la famiglia diretti alla riviera romagnola (eccetera). Che cosa hanno ricevuto – fino a questo momento – dalla visita del museo «riqualificato»? Una serie di informazioni precise sulla città e sul sul territorio, sulla sua gente e sulla sua storia? O piuttosto suggestioni, allusioni ed evocazioni? Gli androidi con teste di pecora rimanderanno anche alle collezioni scientifiche e a quella Spallanzani in particolare, ma siamo certi che questo è il rimando che coglieranno quei visitatori? La pecora Dolly innestata su corpi umani propone certamente il tema del rapporto uomo-natura e di come questa possa essere plasmata e modificata da noi; non c’è dubbio che si tratti di temi importanti, ma il compito del museo è proporli in una chiave così criptica e – cosa ancora più importante – non approfondirli per niente? L’architetto l’ha dichiarato più volte: «È un museo che è un viaggio da cui uscire con delle questioni, anche con niente, forse solo emozioni»; il suo, afferma, è un museo che «pone delle domande», non offre delle risposte. È singolare: in entrata si offrono allo spettatore addirittura «temi primigeni», in uscita «forse solo emozioni». Questa, dunque, è la missione di un museo «per tutti e non solo per gli studiosi»?
Occorre chiedersi che cosa ci sia dietro questo desiderio di sollevare grandi temi. Lasciamo parlare la relazione dello stesso studio Rota (2011): «L’approccio allestitivo che si introduce in questo progetto ha molteplici forme all’interno di un medesimo principio: comunicazione, allestimento, opere ed oggetti esposti parlano il linguaggio comune della comunicazione» (n.13). Che cosa si intenda per «linguaggio comune della comunicazione» non è difficile capirlo quando si guardi la concretezza delle scelte allestitive e se ne leggano le ragioni addotte: il museo viene infatti visto come «display narrativo della mutazione in atto. Organismo complesso pluricellulare dove trovano rappresentazione gli sforzi, le tensioni, i sentimenti, le ambizioni di una comunità in divenire. Vero e proprio raffinato congegno generatore di sorprese, d’incantesimi di sogni, straordinario, spettacolare, sensuale» (n.14).
Il «linguaggio comune della comunicazione» è insomma quello della comunicazione pubblicitaria, del marketing, della televisione commerciale. Questo è forse il punto centrale della discussione. Dopo aver fortemente condizionato e alterato il linguaggio della vita politica, è chiaro che questi modelli comunicativi pretendono di essere la forma giusta anche per altri spazi culturali, di essere cioè la «comunicazione» tout court. Nessuno ha di che ridire se tutte le strategie possibili vengono usate per lanciare un prodotto sul mercato, ma proprio non è detto che queste siano le forme giuste per riallestire un museo.
Perché la discussione sulla sorte dei musei reggiani, che all’inizio sembrava destinata a un perimetro strettamente locale, a un certo punto ha avuto risonanza nazionale (n.15)? Perché si è capito che quello che stava accadendo nella città emiliana, poteva ripetersi – magari in altre forme – nell’intero paese: il museo pensato come un serial televisivo (n.16) e, per usare le medesime parole dell’architetto, «raffinato congegno generatore di sorprese, d’incantesimi, di sogni, straordinario, spettacolare, sensuale». Insomma un luogo sostanzialmente estraneo all’idea di museo pubblico quale si è affermata, nel nostro paese e in Europa, negli ultimi decenni.
Hanno particolarmente colpito gli osservatori esterni le ipotesi riguardanti le collezioni storiche dei musei civici reggiani. Si tratta di un aspetto che ancora preoccupa, nonostante i tentativi di minimizzare, da una parte facendo notare che si tratta di interventi comunque rimandati al futuro, dall’altra dichiarando che, in ogni caso, «le collezioni non verranno toccate». Quello che è certo è che sia le affermazioni fatte, sia i rendering dello studio Rota su questo punto sono tutt’altro che ambigui; ecco il passo relativo della relazione dell’architetto (marzo 2011):
«Le collezioni storiche verranno mantenute per il loro alto valore simbolico e per l’importanza dei contenuti. Vengono inoltre alleggerite di quegli apparati comunicativi che nel tempo si sono sedimentati a favore di una comunicazione più contemporanea che dialoga con le opere esposte: le luci arrivano dai tubi catodici degli schermi, le scritte, i titoli sono parte del sistema decorativo: tende tappeti sono gli stessi oggetti che contengono la storia delle collezioni».
Quanto non è precisato qui, è chiarito dai rendering, in cui si capisce bene, ad esempio, che sono stati previsti schermi televisivi in mezzo agli armadi ottocenteschi della collezione Chierici, un altro schermo dentro il portale cinquecentesco del Portico dei Marmi e, soprattutto, il tappeto con una grafica da cartoni animati sul pavimento sotto gli armadi della collezione di Lazzaro Spallanzani. Qualcuno è arrivato a dire che, in fin dei conti, quel pavimento è solo di piastrelle degli anni Cinquanta, dimostrando di non aver affatto compreso la ragione delle obiezioni. Si può esercitare violenza su un’opera del passato – tale infatti è anche una collezione – anche quando materialmente non si intervenga su di essa. Una villetta di oggi, per quanto ben costruita, che sorga accanto a un tempio greco è una violenza nei confronti di quell’edificio antico; questo, almeno, è quello che avevano tentato di insegnarci personaggi come Argan, Bianchi Bandinelli, Brandi o Cederna, per fare solo alcuni nomi. È a dir poco singolare che «tende e tappeti» possano ospitare «la storia delle collezioni» (ma che cosa si intende esattamente?) (17), ma lo è ancor di più il tentativo di far passare un’operazione del genere come una forma di «dialogo» col passato. Qualunque sia la sorte di queste ipotesi e di questi rendering, una cosa è sicura: essi sono rivelatori del tipo di approccio al problema dei musei reggiani.

Metodo
Ma dato che la tesi che ha alimentato il dibattito e che qui si sostiene – che cioè il progetto in questione proponga un’idea di museo-pop – è impegnativa, occorre supportarla con altre analisi ancora. Parliamo allora di due mostre organizzate a margine e in preparazione del museo «riqualificato».
La prima (maggio 2010), negli spazi del palazzo di San Francesco, ricavava il titolo da una canzone dei Joy Division: L’amore ci dividerà, Love will tear us apart. Prove generali di un Museo (2010). Si trattava di una serie di installazioni, che adattavano materiali dei musei reggiani, in parte esposti, in parte no; installazioni a volte simpatiche, a volte banali, qualche volta brillanti; spesso fintamente provocatorie, con quel linguaggio di tendenza che può dare a una cultura piccolo-borghese la convinzione di essere all’avanguardia. Ma ciò che colpiva era l’enorme distanza tra l’episodicità un po’ criptica delle installazioni e i titoli ambiziosi del pannello introduttivo: «Un viaggio nell’identità»; oppure «Cosa vogliamo valorizzare a Reggio Emilia dell’arte, della scienza, dei costumi, della letteratura per il nostro futuro?». Ora, a distanza di due anni da quella mostra, che cosa è rimasto? Davvero allora si fece un viaggio nell’identità della città o non si realizzò altro che «un evento»? È significativo che ne rimanga oggi solo il trailer, rintracciabile sul Web.
Quella mostra doveva servire a mostrare un possibile percorso di lavoro nei musei reggiani, quello appunto concretizzatosi nel progetto di cui stiamo discutendo. Più recentemente (23 giugno 2012) l’architetto Rota ha presentato pubblicamente il suo progetto; per meglio dire, non ha descritto il progetto realizzato, ma ha parlato del concept ideato per i musei reggiani e già approvato a suo tempo (2007). C’è differenza? Una cosa è l’aspetto museologico, un altro quello museografico; l’uno è la premessa dell’altro e ai presenti era giusto illustrare entrambi, spiegare le premesse teoriche e poi descriverne partitamente le conseguenze.
In ogni caso, l’architetto si è soffermato a lungo su quello che ha più volte definito il «suo metodo»; in sostanza, l’idea è che le serie cronologiche di oggetti possano e debbano essere ridiscusse, consentendo accostamenti inattesi e inattese rivelazioni. Questo approccio ha precedenti illustri, innanzi tutto nel pensiero surrealista; senonché là lo smontaggio e il rimontaggio di oggetti e forme aveva l’obiettivo di certificare il caos della realtà e decretare l’impossibilità di rappresentarla in un ordine sensato. Qui, invece, si ha l’impressione che, nell’assenza di una proposta teorica altrettanto impegnativa, scombinare le serie cronologiche e tipologiche si risolva in un semplice gioco di suggestioni, un montaggio per accostamenti sgargianti, quanto essenzialmente decorativi. D’altra parte, l’esplicito rimando che Rota, durante la presentazione del giugno scorso, ha fatto a Warburg (più esattamente alla lettura dell’atlante Mnemosyne come esempio di un montaggio discontinuo e anacronistico di immagini) è la conferma che si vanno cercando padri nobili per un’operazione di segno profondamente differente. Detto altrimenti: Warburg percorre una linea del tutto estranea a questa, i cui caratteri estetizzanti sono più che evidenti (18).
Che cosa accade se questa prospettiva viene applicata non a un’esposizione temporanea – dove magari può dare risultati convincenti –, ma a un allestimento museale che deve durare, se non decenni, almeno qualche anno? Si risponde allora che il museo non deve essere una realtà statica, ma in continuo movimento. Si intravvede così un museo in perenne divenire, con una sola cosa ben ferma: l’architetto creatore del «metodo», sempre a disposizione per nuovi allestimenti e risistemazioni dei materiali delle collezioni, addirittura «formatore» del personale interno, come ha affermato egli stesso.
Ma, alla fine, la vera domanda è questa: in nome di che cosa avviene questa frattura di un continuum storico e delle tassonomie consolidate (rilevante anche se fosse realizzato in spazi nuovi, lasciando da parte le collezioni storiche del museo)? Questa domanda, impropria se rivolta a un collezionista privato, che costruisce la propria raccolta secondo criteri per definizione personali e idiosincratici, diventa obbligatoria nel caso di una raccolta civica: in nome di quali valori (condivisibili dalla cittadinanza) e verso quali obiettivi (da condividere con i cittadini)?

Oggetti e parole
La recentissima mostra «Gli oggetti ci parlano» (Chiostri di San Pietro, maggio-giugno 2012) è un’altra occasione per verificare le osservazioni fatte finora. L’iniziativa consisteva nell’invitare i cittadini a portare oggetti degli anni Sessanta e Settanta per iniziare l’allestimento delle period-room del futuro museo. Bisogna dire subito che si è trattato di un’idea del tutto brillante, oltre che riuscita (n.19); il coinvolgimento dei cittadini è stato reale ed è senz’altro servito ai partecipanti come mezzo per riflettere sulle cose che si possedevano e che hanno caratterizzato la vita quotidiana dei decenni scorsi.
Detto questo, la mostra ha di nuovo consentito di osservare da vicino il funzionamento del «linguaggio comune della comunicazione». Già dai manifesti e dai pieghevoli, e poi nella esibizione stessa, venivano evidenziate le quattro sezioni principali in forma di domande sospese: «Come  mangeremo, come vestiremo, come parteciperemo, come condivideremo». Ancora una volta verbi declinati al futuro. Naturalmente non è per caso. L’osservazione più semplice è anche la più importante: nessuno, davanti agli oggetti degli anni ’60-’70 portati dai cittadini reggiani e allestiti ai Chiostri di San Pietro, sa qualcosa in più su «come mangeremo» nei prossimi anni o «come vestiremo»; neppure – aspetto non meno importante – abbiamo imparato qualcosa su come parteciperemo alla vita delle nostre comunità. Ma allora perché  prospettare queste (fittizie) visioni future?
Come scriveva Pierre Nora, «il sistema informativo dei media (…) ci bombarda con un sapere interrogativo, privato del suo nucleo, privo di senso, che si aspetta che gli conferiamo il suo senso, ci frustra e insieme ci riempie della sua evidenza ingombrante: se non intervenisse una riflessione storica, non sarebbe, al limite, che un rumore che disturberebbe l'intelligibilità del proprio discorso» (n.20). Un «sapere interrogativo», sempre in attesa che gli venga attribuito un senso: «come mangeremo» non lo sa nessuno, intanto poniamo la domanda.
Pier Paolo Pasolini, in un articolo dedicato alla campagna pubblicitaria dei jeans Jesus (1974), aveva avanzato l’ipotesi che in futuro gli slogan usati per vendere i prodotti avrebbero potuto assumere caratteri schiettamente espressivi e, come tali, solo apparentemente antagonisti rispetto alla lingua della comunicazione tecnica e industriale. La possibilità di un’interpretazione infinita (per usare ancora un’espressione di Pasolini) di frasi dell’advertising, nei decenni più vicini a noi, si è rafforzata quando essi hanno cominciato a prendere un tono filosofico con rimandi alla dimensione esistenziale; si è anche iniziato a citare direttamente dei classici, magari in forma aforistica. È evidente che le campagne pubblicitarie impostate in questo modo non intendono prospettare tanto il futuro del prodotto in questione, ma cercano di costruire una cornice di rimandi e di significati più ampia, che ricomprenda con un effetto positivo e nobilitante il prodotto stesso. Un meccanismo comunicativo tutto meno che banale, che sposta l’attenzione su un altro piano per poi farla ritornare al marchio in questione. C’è qualcosa di scandaloso? Nulla. Ma non sarà neppure scandaloso individuare parentele linguistiche e avanzare il dubbio che il linguaggio della comunicazione pubblicitaria, per quanto scaltrita e di tendenza, sia quello adatto a un museo.
Ancora una volta: può forse andar bene che un’esposizione temporanea derivi i propri meccanismi da quelli della comunicazione pubblicitaria, ma un museo? Perché va detto che una cosa è stata la campagna di coinvolgimento delle persone e dei loro oggetti, un’altra l’effetto complessivo dell’installazione. La prima non è certo una «premessa a una rivoluzione museale» (n.21) (dato che trova già precedenti europei) (n.22), ma è stata un modo vivace per far partecipare i cittadini. Tutt’altro, invece, è stato il risultato degli allestimenti, come è già stato osservato (n.23): nei musei europei in cui si è scelto di tornare alla formula della period-room (tipica della museografia anglosassone degli inizi del Novecento), gli allestimenti sono del tutto differenti da quelli che abbiamo visto ai Chiostri di San Pietro. Il museo non si crea in automatico, né grazie al contributo diretto dei cittadini, né grazie all’intervento di un bravo architetto-allestitore. Nelle period room, come in tutti gli altri ambiti museali, il risultato sarà buono solo quando sarà preceduto da un lavoro e da uno studio lungo e accurato.
Del resto, è poi vero che «gli oggetti ci parlano»? Si tratta in realtà di un’efficacissima metafora che finisce per trasformarsi in una sorta di trappola del linguaggio: come è ovvio, gli oggetti non parlano (da soli), e la crisi attuale dei musei ne è una prova diretta; al contrario – se ci si permette l’espressione – gli oggetti sono parlati. Quelli che entrano nei musei vivono solo attraverso i discorsi incrociati degli studiosi, dello staff del museo, dei visitatori; nelle parole pronunciate dalle guide, in quelle leggibili sulle didascalie e negli altri apparati didattici.
Prendiamo un vero «evento»: la recente scoperta di un recipiente d’oro dell’età del bronzo in provincia di Reggio Emilia. Persino lo splendore del materiale non basterà a far parlare l’oggetto, che anzi se ne resterà silenzioso nel suo eccezionale isolamento, fino a che non lo si voglia inserire in un contesto narrativo che lo colleghi ad altri oggetti (una serie storica) e lo spieghi «a tutti e non solo agli studiosi». Sarà possibile farlo, senza con questo cadere in una presentazione sciatta, ma anzi valorizzando gli stessi valori estetici (e di richiamo) dell’oggetto?

Prospettive
In questa analisi del progetto Rota non si è fatto ricorso – deliberatamente – a termini come bello o brutto, piace o non piace. Si è osservato invece come questo progetto da un lato sia estraneo alla storia dei musei civici reggiani, dall'altro sia incompatibile con il profilo di una buona museologia. In sostanza non è ciò che serve in questo momento. Quali sono le cose necessarie? Prima di tutto la messa a norma degli ambienti anche sul versante dell'accessibilità ai disabili e il recupero funzionale degli spazi già interessati dal progetto Mari-Rudi (in questa direzione sembrano avviarsi i lavori appena approvati dal consiglio comunale); la valorizzazione dell'edificio storico, uno dei più importanti spazi conventuali della città e il recupero del chiostro come luogo partecipato di passaggio ed esposizione dei materiali archeologici; lo studio di nuovi percorsi specie per la parte archeologica relativa al territorio e alla città d’età romana.
Infine le due collezioni storiche Spallanzani e Chierici; se non si vuole che la definizione di «museo nel museo» rimanga solo un artificio retorico, occorre valorizzarle adeguatamente, come la rarissima opportunità di entrare oggi nel laboratorio di due grandi scienziati del passato: restaurare le vetrine del museo Chierici recuperando le originarie forme di allestimento interno, cambiando e adeguando il sistema di illuminazione interno; infine, allestire tecnologie multimediali per spiegare le collezioni a un pubblico necessariamente diversissimo da quello per il quale erano nate (n.24).
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note:
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[1]Questo articolo è già comparso in «Taccuini d’arte. Rivista di storia e arte del territorio di Modena e Reggio», 6, 2012, pp. 106-112.
[1] Ora in Riflessioni sulla storia dell’arte, Torino 1991, pp. 256 e sgg.
[1] C. Franzoni, A. Sarchi, Entre peinture, archéologie et muséographie: l’Antiquarium de Michele Fabrizio Ferrarini, in “Revue de l’art”, 125, 1999/3, pp. 20-31.
[1] E. Farioli, Il «nuovo» Museo di Palazzo San Francesco, in «Taccuini d’arte», 5, 2011, pp. 89 e sgg.
[1] Lavori di restauro e adeguamento funzionale di Palazzo San Francesco, sede dei Musei Civici Risorgimentali a Reggio Emilia. 1° stralcio. Tav. AL. 14, Acquario. Marzo 2011.
[1] Come mi fa notare Paolo Bedogni, sul lato sud-est del giardino dei musei, restano tracce consistenti di uno degli antichi canali che attraversavano la città dall’età medioevale in poi: non era qui, piuttosto, o quantomeno in rapporto a questo spazio non valorizzato del complesso di San Francesco, che era opportuno sviluppare il tema dell’acqua e del suo uso storico?
[1] Studio Italo Rota&partners, Relazione capitolato marzo 2011, p. 13; come si ricava dalla stessa relazione è assolutamente secondario quanti e quali pesci ci siano: “Il contatto stipulato dovrà garantire oltre alla fornitura dell' acquario eseguito ad opera d' arte, anche dei pesci nel numero e specie ritenute opportune, dell' allestimento interno, la sua messa in opera, a garantirne un corretto funzionamento”.
[1] Farioli, Il «nuovo» Museo …, p. 94.
[1] Lavori di restauro e adeguamento funzionale di Palazzo San Francesco, sede dei Musei Civici Risorgimentali a Reggio Emilia. 1° stralcio. Tav. AL. 15, Acquario. Marzo 2011.
[1] Studio Italo Rota&partners, Relazione capitolato marzo 2011, p. 14.
[1] F. Gualdoni, Specchiato egocentrismo,  «Il Giornale dell’Arte», luglio 2012.
[1] C. Franzoni, Il museo come serial televisivo, in «Doppiozero», 23 marzo 2012 <http://www.doppiozero.com/materiali/fuori-busta/il-museo-come-serial-televisivo>.
[1] Farioli, Il «nuovo» Museo …, p. 94.
[1] Studio Italo Rota&partners, Relazione capitolato marzo 2011, p. 3.
[1] Studio Italo Rota&partners, Relazione capitolato marzo 2011, p. 3:  «Il secondo [il museo] display narrativo della mutazione in atto. Organismo complesso pluricellulare dove trovano rappresentazione gli sforzi, le tensioni, i sentimenti, le ambizioni di una comunità in divenire. Vero e proprio raffinato congegno generatore di sorprese, d’incantesimi di sogni straordinario, spettacolare, sensuale. Luogo della consapevolezza della complessità e della ricchezza della realtà locale. Luogo della ricerca di un’identità, troppo spesso semplicisticamente ricondotta all’interno di un’illusoria età dell’oro, anziché frutto di una rilettura del passato con lo sguardo volto al futuro. Filo conduttore attraverso cui una comunità si riconosce e al tempo stesso rivede il percorso tipico di una città intermedia europea che per passi successivi, per successive mutazioni inconsce e consapevoli insegue il suo destino».
[1] N. Criscenti, Troppi funghi davanti al museo, «Il Sole24ore», 29 aprile 2012. Sull’appello del Comitato per la Bellezza (come su altri interventi sul tema, non segnalati nel presente articolo), cfr. <http://amicideimuseicivici.blogspot.it/2012/05/la-petizione-nazionale-del-comitato-per.html>.
[1] Rimando al mio articolo citato a nota 11.
[1] Come dichiara l’architetto Rota a un quotidiano locale (6 marzo 2012): «La parte storica dovrebbe restare quasi invariata [corsivo mio], mentre lo spazio dedicato allo Spallanzani subirà un aggiornamento per stendere su un tappeto la storia dell’evoluzione della scienza nella classificazione del mondo vivente».
[1] Rimando al mio Warburg e l’arte contemporanea: alcune note, in «Engramma», 100, settembre-ottobre 2012, http://www.engramma.it/eOS2/index.php?id_articolo=1141.
[1] Cfr., sull’iniziativa, la recensione di V. Rinaldini in questo stesso numero della rivista.
[1] P. Nora, Il ritorno dell’avvenimento, in Fare storia, a cura di J. Le Goff e P. Nora, Torino 1981, p. 148 e sgg.
[1] Come sostiene P. Panza, Ognuno porta un oggetto in mostra, in «La lettura. Corriere della Sera», 20 maggio 2012.
[1] L. Meyer-van Mensch, P. van Mensch, New trends in museology,  Celje 2011, pp. 56 e sgg. (sulle possibili forme con cui le persone possono contribuire e collaborare alla creazione dei musei). Ringrazio Margherita Sani per avermi segnalato questo saggio.
[1] A. Sarchi, La collezione come forma d’arte e le sorti dei Musei Civici di Reggio Emilia, in «Doppiozero», 14 giugno 2012 <http://www.doppiozero.com/rubriche/158/201206/la-collezione-come-forma-d’arte-e-le-sorti-dei-musei-civici-di-reggio-emilia>.
[1] Non mancano esempi in altri musei in Europa, come il Teylers Museum ad Haarlem, cfr. http://www.teylersmuseum.eu/ e in particolare http://www.teylersuniversum.nl/.
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