MUSEI CIVICI - QUALE FUTURO

MUSEI CIVICI - QUALE FUTURO

mercoledì 30 ottobre 2013

CONCLUSIONI - JADRANKA BENTINI

CONCLUSIONI

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Jadranka Bentini
Italia Nostra - Sez. di Bologna

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In apertura di convegno abbiamo sentito le parole del Presidente Benati sulla necessità, oggi più che mai, di un rapporto interagente fra Museo e Università per promuovere insieme cultura superando la logica stringente delle sole risorse finanziarie in una visione che restituisca alle Istituzioni l’intero processo della promozione del settore.  Marina Foschi, Presidente regionale, ha evocato dal canto suo quel rapporto imprescindibile fra museo e territorio che, in una regione tanto ricca di piccole capitali come di patrimonio monumentale e artistico diffuso quale la nostra, ha visto fino a ieri i musei civici depositari e insieme fautori della cultura museale quale funzione primaria della cosiddetta valorizzazione, in rapporto costante con i cittadini.  E’ l’identità stessa del museo civico – evidenziata nella relazione introduttiva affidata ad Andrea Emiliani che ha ripercorso in sintesi i passaggi storici che hanno contraddistinto dall’Unità del paese ad oggi la fisionomia del vero museo italiano, quello civico appunto, legato ai territori di appartenenza – a richiamarne i presupposti indicando al contempo le linee per un rilancio che proprio da una situazione di violenta crisi quale oggi assistiamo deve ripartire in vista di un rinnovamento critico del settore.   Dal 1867, con l’editto per la liquidazione dell’asse ecclesiastico, prese avvio la creazione dei musei civici italiani ovvero delle più grandi raccolte storiche esistenti sul territorio nazionale, nella istituzione delle quali è ravvisabile la sapiente coniugazione fra interesse delle comunità e interesse della Chiesa: si trattò di una grande operazione civica, vera espressione della storia delle singole città, penetrata e restituita dalla consistenza dei materiali raccolti senza gerarchizzazioni tipologiche, con la volontà di coniugare le più svariate esperienze artistiche e capace di creare vere e proprie moderne Wunderkammers  ( esempio fra tutti di unitarietà delle raccolte, prima dello scorporo avvenuto nel recente passato per la creazione di luoghi museali specifici, il museo civico archeologico bolognese, inaugurato nel 1888 nella sede dell’Archiginnasio).    Si può definire il museo civico l’unico veramente democratico di cui l’Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia Romagna ebbe ad occuparsi all’inizio della sua storia ottemperando ad una visione statutaria di un impegno rivolto a tutte le realtà museali e patrimoniali della regione, anche quelle più lontane o nascoste, per assisterne e promuoverne l’insita vivacità.  Dagli anni settanta del secolo appena trascorso la Soprintendenza ai Beni artistici di Bologna, curò, lo ricorda lo stesso Emiliani, una serie di pubblicazioni atte non solo a rendere conto delle azioni di tutela territoriale, ma a promuovere politiche di conservazione e di restituzione ampliando i termini tematici dei compiti di sua stretta competenza sui quali convogliare anche il lavoro dei musei e per i musei civici della regione.  Lo stesso IBC, una decina di anni dopo, promosse studi e ricerche quali basi imprescindibili per un rilancio dei musei dei maggiori centri storici della regione sui quali convogliare una corretta progettualità, di riordino come di gestione. 
Angelo Varni, dal canto suo, ha ripercorso proprio sulle tracce dell’operato di quel recente passato le tappe concettuali del museo moderno, da luogo conservativo di memorie a luogo espositivo in un’ampia rete di relazioni e di segni che dalla storia passa all’attualità, soggetto in grado di produrre cultura evocativa adeguata al mutare della dimensione culturale in cui è immerso.
La fragilità odierna dei musei civici è emersa in tutta la sua consistenza e gravità alla luce della constatazione che la cultura non è più al centro delle politiche di territorio, che altre sono le logiche di gestione, lontane, se non addirittura estranee, a quella coniugazione basilare fra urbanistica e musei che aveva contraddistinto l’operato degli Enti Locali fino allo scadere del secolo appena trascorso dietro la spinta propulsiva della Regione, regista di una compiuta sistemazione dei provvedimenti normativi in tema di musei biblioteche e archivi con la legge.18 del 2000, affidata in gestione all’IBC.      Un destino comune ad altri musei con i quali i civici spartiscono la trama territoriale del loro consistere e la stessa formazione: quelli ecclesiastici, descritti efficacemente da Domenica Primerano nel suo intervento, la cui istituzione ha significato al contempo salvataggio di beni e di opere d’arte e sradicamento dai luoghi originari, due condizioni che danno forma e significato alla finalità primaria di questi luoghi, vale a dire la riconnessione fra oggetti, luoghi di provenienza e comunità di appartenenza. Ad essi, troppo spesso carenti di personale specializzato, ancora lontano dal modello museale come definito dall’ICOM e piuttosto improntati ad una separatezza d’intenti didattici – quelli catechetici -, va imputata una logica di autoreferenzialità da superare in nome di un obiettivo relazionale con un pubblico più vasto, in sintonia con politiche territoriali in cui proprio i musei civici siano interlocutori primari.
Ridotte al silenzio le leggi e i decreti varati dall’’85 al 2000 che miravano a immettere risorse nel processo operativo di gestione dei beni culturali, e dunque in primis dei musei, con precisi criteri di responsabilità dei compiti fra soggetti interessati – pubblico e privato – dalla progettazione al controllo, l’accelerazione data alla visione mondana ha minato l’identità dei musei, caduti sotto i colpi di lusinghe di rammodernamento a fini accattivanti assolutamente improprie, a tutto detrimento dei luoghi e delle forme storiche ( l’esempio del progetto da adottarsi dal Comune di Reggio Emilia per un nuovo ordinamento del Musei civici, analiticamente trattato con dovizia di particolari da Claudio Franzoni nel suo intervento, appare particolarmente aberrante, oltre che inutilmente costoso) ; la creazione di nuovi musei mirati a condensare attraverso ricostruzioni allusive opinabili le forme del reale ( il Museo della città di Bologna è il campione di riferimento), lo scorporo di funzioni tecnico-scientifiche con sostituzioni o subordinazioni a logiche amministrative di segno diverso, la sostituzione con nuovi progetti costosi e divaganti alternativi a strade già intraprese per potenziare o dare nuove vesti allestitive ai musei, sono alcuni degli aspetti più devianti riscontrabili nelle nostre realtà territoriali.   Eppur vero che nella regione, e in particolare in Romagna e a Forlì per iniziativa rispettivamente del Sistema museale della città di Ravenna e dell’amministrazione comunale di Forlì, si è cercato di rispondere alla criticità dei musei con l’aiuto di politiche concordate dell’uso del digitale e dei servizi in comune o, come nel caso forlivese, con la ripresa di una seria proposta progettuale di carattere tecnico-scientifico connessa alla sintassi architettonica della città storica: rilanciare l’idea di un sistema dei musei non ha significato però nei fatti risolvere i casi critici del circuito museale forlivese legato ad immobili storici di grande bellezza, attualmente in condizioni precarie di conservazione o chiusi al pubblico insieme alle raccolte di cui sono custodi. Né il restauro e la funzionalizzazione del complesso del San Domenico – progetto in sé grandioso, traguardato con successo ad opera di più soggetti – adibito parte a museo e parte  a spazi espostivi, hanno agevolato il riallestimento dei musei.  Il Comune di Bologna dal canto suo ha finalmente riordinato, sulle tracce di una vecchia quanta positiva idea, le sue  strutture organizzative museali in una unica Istituzione con ben 13 aree disciplinari sotto un unico coordinamento, ma senza ancora avere istituito al suo interno un Comitato scientifico che ne indirizzi e ne garantisca le singole azioni.  
Biblioteche e archivi da più tempo condividono obiettivi comuni per il superamento di demarcazioni settoriali, e non solo per l’uso dei servizi digitali: Stefano Vitali, nel tratteggiare le linee che hanno condotto alla istituzione dei poli archivistici quale nuova forma organizzativa della maglia degli istituti archivistici dopo la lunga fase stato-centrica della loro gestione, ha ricordato come il policentrismo degli archivi vada tuttora governato per limitare ancor più i limiti della disseminazione sul territorio puntando l’accento sulla necessità di servizi condivisi oltre la semplice conservazione dei materiali, per dare corpo ad una cooperazione interistituzionale che possa economizzare e rendere più efficienti strutture, risorse e aspetti divulgativi, a cominciare da un disegno ricompositivo di nuclei affini o interagenti, altrimenti frazionati sul territorio.    In sintesi, quella tassonomia di relazioni proposte da più parti anche per i musei e riassumibili nei termini cooperazione coordinazione collaborazione convergenza come risolutivi della loro vitalità, non sembrano essere sufficienti nello specifico se non come termini strumentali del processo qualificante, più che mai e sempre necessariamente legato ad una pratica di governo del museo essenzialmente “artistica” o comunque “scientifica”.
Ciò che preoccupa, oltre l’odierna crisi economica, è la crisi più generale del concetto di patrimonio come sedimentazione fisica di opere e di oggetti connaturati alla città storica, anch’essa in crisi, nonché il rilassamento della ricerca storico-artistica come base di un processo scientifico. 
Turismo e cosiddetti ‘grandi eventi’ o ‘grandi mostre’ hanno contribuito, nel progetto come nell’operato, a snaturare il carattere e la missione del museo civico quando assunti come azioni rigeneratrici, ma in verità sostitutive della loro vitalità; la costituzione del museo civico e la sua consistenza, ridotta di proporzioni rispetto alle grandi raccolte nazionali, priva di concentrazione di capolavori che non siano quelli diffusi, suggerisce continui rinnovamenti con prospettive unitarie di gestione che ne economizzino sì le risorse, ma senza mortificare le valenze specifiche, diminuire l’autorevolezza tecnico scientifica degli operatori con una crescente esenzione dai processi ideativi della programmazione, avvantaggiare derive neo-centriste o neo-liberiste che deprimono gli interessi vitali degli Enti Locali.  Il rapporto fra supporters economici e musei è in molti casi infelice e anche laddove nuove forme istituzionali di gestione sono state create, il funzionamento non ha ancora segnato  traguardi di qualità.  Nell’ambito della odierna crisi di risorse finanziarie – spesso un comodo baluardo per mettere in secondo ordine i musei- e a  proposito di supporters, come ha sottolineato Maria Cecilia Fregni nel suo intervento, in Italia manca un sistema organico di norme fiscali riguardanti l’attività culturale e di gestione e la tutela dei beni storico-artistici e dei musei, sostituto da singole disposizioni contenute nelle varie leggi di imposta. La tendenziale attrazione verso modelli privatistici che vengono considerati più consoni rispetto ad un organismo pubblico per la gestione di patrimoni culturali, cozza con il rischio di “aziendalizzazione” dei musei se vengono individuati come soli obiettivi da perseguire il pareggio di bilancio o l’efficienza e la trasparenza amministrativa. In assenza di uno studio comparato che rilevi il bilancio effettivo delle elargizioni e dei suoi effetti dagli anni ottanta ad oggi – vale a dire erogazioni liberali, deducibili parzialmente dal reddito, e sponsorizzazioni, completamente deducibili –, è però certo che l’attività museale è quasi interamente defiscalizzabile attraverso agevolazioni ed esenzioni, con una subordinazione al controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria.  Un punto importante questo, che risponde in parte a quanto sollevato nel suo intervento da Giovanni Losavio a proposito di Fondazioni di origine bancaria, al cui sostegno i musei civici hanno titolo per accedere e misurare i loro programmi. Esse, nel dover perseguire per legge esclusivamente scopi di utilità sociale e di promozione economica, hanno fissato preferibilmente, e nella maggior parte dei casi, fra i settori di preferenza la promozione e il sostegno dell’arte e delle attività nel campo dei beni culturali, in collegamento solidale con gli enti e gli istituti territoriali.  Ma è proprio qui dove i luoghi e le occasioni offrono speciale visibilità che le talune Fondazioni – valgono gli esempi di Bologna e di Modena- si ritengono legittimate a realizzare in proprio progetti alternativi e di gestione diretta, o addirittura di programmazione politico-culturale con ambiziosi progetti di creazione di veri e propri poli culturali, abusando del loro mandato e aumentando così un’offerta di cui non si intende la necessità e per la quale non possiedono adeguate competenze, trascurando al contempo di soddisfare la fondata aspettativa di un autentico sostegno da parte delle Amministrazioni.   Peraltro una radicale trasformazione istituzionale dei musei per sfuggire ai vincoli del patto di stabilità, vale e dire il loro confluire in una fondazione di diritto privato, se ammesso dallo stesso Codice Urbani pur con qualche cautela, priverebbe i Comuni del patrimonio demaniale, vale a dire pubblico, loro affidato. “La privatizzazione dei musei civici, perché tale è il loro conferimento, come struttura operativa di raccolte e personale dedicato, in una fondazione ad hoc, comporterebbe una essenziale alterazione di identità storica istituzionale”, né si vede quale ostacolo potrebbe impedire, anche alla luce di quanto precedentemente asserito, una attribuzione diretta di risorse all’ente proprietario di musei da parte di soggetti disponibili e disinteressati quali dovrebbero essere le Fondazioni di origine bancaria.

Dagli interventi delle sezioni ( portatrici del valore specifico dei musei delle loro aree di riferimento) è emerso ancora con più forza la attuale separazione fra cultura e territorio – tanto più forte nel nostro caso tenuto conto del consolidamento processo storico di immedesimazione tra comune e museo civico - fra ambiti culturali e pianificazione territoriale in nome di una progettualità frammentaria e di corto respiro, priva di una visione di pubblica utilità in cui ha prevalso l’applicazione di un concetto di valorizzazione del patrimonio e dei musei essenzialmente economico e non più funzionale alla conoscenza e alla crescita sociale: la chiusura di taluni importanti musei o l’abbandono di sedi storiche monumentali sta impoverendo le città ridisegnandone al ribasso la fisionomia e mortificandone le potenzialità assorbite sempre più nella sfera del contemporaneo proposto arbitrariamente in antitesi con il passato e l’antico; è stato sottolineato l’abbassamento della percezione del valore del patrimonio museale da parte delle città come il mancato superamento del particolarismo delle culture che ha prodotto spesso grandi progetti, poi disattesi o abbandonati a se stessi; evidenziato lo scollamento fra amministratori e cittadinanza nella programmazione culturale dei musei affidata in molti casi a gestori esterni, segno tangibile di quella mancanza di visione unitaria della politica culturale che privilegia il particolarismo, la privatizzazione o la parcellizzazione degli esperimenti e delle esperienze quali forme atte a sbloccare le attuali situazioni di stallo; lamentato il progressivo impoverimento delle risorse professionali che affligge i musei, depauperati, oltre che di denaro, di personale operativo. Si deve ancora rilevare come la ‘mostromania’ slegata da qualunque contesto territoriale di riferimento continui a incassare consensi a detrimento dei musei civici che ne finiscono per costituire spesso un corollario; è stato rimarcato ripetutamente da tutti i convenuti il pericolo della trasformazione dei musei dal punto di vista giuridico per incentivare nuove forme di gestione affidate a soggetti diversi dalle Amministrazioni pubbliche con il pericolo della “sdemanializzazione” del patrimonio collettivo, e ancora l’abbandono di progetti già intrapresi in condivisione fra soggetti pubblici – siano statali o comunali- per un potenziamento e una più razionale efficienza dei servizi con minori costi, per rifluire su proposte alternative di maggiore spettacolarizzazione e maggiori oneri promosse e sostenute da privati ( la costituzione di un polo culturale che comprenda musei, biblioteche, auditorium e sale espositive, definito pomposamente Beauburg estense nell’ex ospedale sant’Agostino a Modena, per un costo stimato di 60 milioni di euro, costituisce il caso in discussione);  ancora è stata sottolineata in diversi casi la necessità della creazione di un sistema museale cittadino laddove mancante  (Ferrara fu portatrice dell’idea di una rete museale fino dagli anni ’70, senza però averne ancora conseguito il traguardo) alla luce dei risultati positivi raggiunti dalle città che ne hanno fatto già annosa esperienza come Modena, Ravenna e Rimini, come il superamento delle cosiddette “ monoculture” di punta ( Faenza con la ceramica ne è l’esempio più calzante) per rivendicare invece il senso più ampio dell’intera storia artistica che contraddistingue le singole città: tutti punti nodali della discussione che superano la constatazione della crisi identitaria attuale per attestarsi su problemi culturali di fondo che impediscono l’autentico decollo dei musei civici, di qualsiasi matrice, artistica o scientifica.
La tutela dei musei civici, che è tutela della loro identità e freno al tentativo della privatizzazione odierna quale panacea per risolvere essenzialmente problemi finanziari ponendo gli Enti Locali in posizione di servaggio ancillare di fronte a soggetti esterni, deve prescindere da nuove architetture istituzionali che ne mortifichino il valore convergendo invece sulla dimensione più vasta del paesaggio urbano e della città storica quali contesti unitari di riferimento; né basta a frenare tali pericoli già in atto la pur meritevole e generosa presa di posizione di associazioni di cittadini impegnati a combattere sul campo.  Il quadro giuridico e normativo in essere è più che sufficiente ad irrorare il settore, ma è pressoché completamente disatteso, con evidente deroga da parte di talune Amministrazioni dai compiti  istituzionali di tutela diretta.
Non vi è dubbio che dopo la riforma del titolo V spettino alle regioni compiti di indirizzo, programmazione e sostegno finanziario in materia di musei, come pure di biblioteche e di archivi degli enti locali, compiti riconosciuti nella stessa fase fondativa dell’IBC cui è affidata la gestione della legge n. 18/2000, in cui viene valorizzato anche il ruolo istituzionale dei comuni nel sistema museale territoriale.
Se la necessità di reagire alla stasi e al malessere dei musei di oggi è inequivocabile tanto più a fronte di un pronunciato decadimento culturale legato ad una marcata crisi italiana, all’IBC e alla Regione spetta il dovere di intervenire riavviando un dibattito interrotto, dai propositi del quale possano scaturire opinioni e reazioni fonti di un cambiamento di rotta a cominciare dal riavvio di una autentica politica per i beni culturali che leghi trasformazioni e soluzioni in un unico processo risolutivo superando l’annosa quanto illegittima e assurda antitesi tutela- valorizzazione che ha afflitto il settore dei beni culturali in questi ultimi anni.

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