MUSEI CIVICI - QUALE FUTURO

MUSEI CIVICI - QUALE FUTURO

mercoledì 30 ottobre 2013

MUSEI ECCLESIASTICI E MUSEI CIVICI

Musei ecclesiastici e musei civici:
prove di dialogo
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Domenica Primerano
Museo diocesano di Trento

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Desidero anzitutto ringraziare la sezione di Bologna di Italia Nostra e in particolare la dott.ssa Bentini per avermi offerto la possibilità di partecipare a questo incontro, nelle cui motivazioni mi riconosco in pieno. Ma il ringraziamento è anche per aver offerto un’occasione di dialogo, di confronto, ad una realtà di cui sono testimone e parte attiva: mi riferisco ai musei ecclesiastici.
Una realtà variegata non solo per tipologia (musei parrocchiali, diocesani, del Tesoro del duomo, della cattedrale, ecc.) ma anche per le collezioni che vi si conservano: accanto a raccolte di arte sacra legate al culto e alla liturgia (prevalenti), questi musei possono includere anche collezioni naturalistiche (mineralogiche, paleontologiche, botaniche, zoologiche) e di strumenti scientifici. Si tratta per lo più, in questo caso, di raccolte legate alla funzione didattica rivestita da quei musei sorti all’interno di seminari o di collegi gestiti dagli ordini religiosi. Ma nei musei ecclesiastici troviamo anche reperti archeologici, manufatti artistici non necessariamente sacri, raccolte etnografiche e demo antropologiche, legate al territorio su cui gravita la singola istituzione, donate (soprattutto in tempi passati, quando si registrava maggiore senso civico) da studiosi, collezionisti, illustri esponenti della comunità locale, semplici cittadini.
Accanto ad una sezione ‘sacra’ i musei ecclesiastici possono dunque contemplare una sezione ‘profana’: è il caso, ad esempio, del Museo Diocesano Tridentino, il secondo museo diocesano sorto in Italia, dopo Bressanone, istituito nel 1879 (ricordo che entrambe le città facevano ancora parte dell’Impero Austro Ungarico, dove già erano attive analoghe istituzioni). Fondato nel 1903, il museo presenta nel suo primo catalogo (pubblicato nel 1907) proprio questa distinzione: arredi liturgici di differente tipologia e oggetti “di epoche diverse che possono interessare la storia o l’arte dei nostri paesi”. Ovvero: “oggetti preistorici, etruschi, romani, barbarici e dei tempi posteriori; rinvenimenti fatti negli scavi, monete, vasi, armi, anelli, sigilli, collane, aghi crinali, utensili domestici e d’arte, dipinti, libri, manoscritti, documenti, pergamene, storie patrie e monografie, incunaboli, pietre incise, bassorilievi, lapidi: in una parola, tutte quelle cose che si raccolgono nei musei di arte e di storia”. Ma, direi, soprattutto nei musei civici.
Ed è lo stesso direttore, Vincenzo Casagrande, a chiedersi (quasi volesse anticipare una possibile domanda da parte del lettore): “perché mai dovremo noi occuparci anche di arte profana?”. La risposta è chiara: per consentire agli allievi del Seminario teologico (per i quali il museo fungeva da palestra o, come diremmo oggi, da laboratorio didattico) di “completare la propria preparazione culturale e favorirne la formazione del gusto estetico”. Le conoscenze acquisite, aggiunge Casagrande, avrebbero consentito ai sacerdoti di vigilare consapevolmente non solo sui beni della propria chiesa, ma anche sul patrimonio presente in quel territorio.

Alcune considerazioni.
La prima: Casagrande parla di una formazione che, per essere tale, necessita di conoscenze complementari (arte sacra/arte profana). Rispondendo all’ipotetica domanda “perché dobbiamo occuparci anche di ciò che non ci compete”, questo sacerdote - che si avvicina all’arte da autodidatta ma con l’umiltà di chi ha piena consapevolezza dei propri limiti, tant’è che si avvale del sostegno di coloro che egli definisce “intendenti d’arte”, ci ricorda che conoscere non significa separare, ma stabilire relazioni.

La seconda considerazione: c’è una trama comune a musei civici e musei ecclesiastici. Anzitutto la presenza di collezioni miste; in secondo luogo il ruolo, più accentuato nei MC rispetto ai ME, delle  donazioni da parte della comunità e di privati cittadini; infine la casualità delle raccolte che, in entrambi i casi, non derivano da un progetto collezionistico predefinito, ma dalla necessità di ricoverare beni per garantirne la conservazione o per raccontare e custodire la storia di un territorio, di una comunità. Operazione che, sia nel caso dei ME come nel caso dei MC, presenta (come ben sappiamo) un prezzo molto elevato: uno strappo che produce inevitabilmente lo spaesamento e la perdita parziale di senso del bene sradicato dal proprio contesto.
Sradicamento prodotto da quel processo di musealizzazione che, per i musei ecclesiastici, scatta sotto forma di “deposito obbligatorio” per i beni non più in uso, stando a quanto stabilito dalle Norme per la tutela e la conservazione del patrimonio storico artistico della Chiesa, emanate dalla CEI nel 1974.  I cap. X e XI , che riguardano i musei, cercano comunque di definire i limiti di tale processo:
Le opere d’arte – vi si legge - devono restare possibilmente nei luoghi di culto  per conservare alle chiese, agli oratori, ai monasteri, ai conventi l’aspetto della fisionomia originaria di luoghi destinati agli esercizi di pietà. Se la conservazione nei luoghi  originari non è possibile, perché i beni non hanno più funzione di culto, o sia gravemente rischiosa, si istituiscano musei diocesani”.

Con queste parole si mette a fuoco una questione centrale:

         Il museo ecclesiastico riunisce beni di interesse religioso legati alla devozione, al culto, alla liturgia. Riunisce soprattutto arredi mobili ad uso liturgico.
         Per arredo si intende tutto ciò che è pertinente a un ambiente. ne costituisce il decoro e risponde ad una precisa funzione
         Nel momento in cui si sradicano i beni dall’ambiente per il quale furono realizzati e dall’uso che li caratterizzava, si produce una inevitabile perdita di senso
         La musealizzazione di conseguenza deve rendere comprensibile il nesso che si è spezzato: gli oggetti devono conservare e comunicare la memoria della funzione cui furono adibiti e del luogo per il quale furono realizzati. Facile a dirsi, più difficile da realizzare. Ma questa è la sfida alla è chiamato chi lavora in un museo, ecclesiastico ma anche di altra tipologia.

Ma quanti sono oggi i musei ecclesiastici, intendendo con questo termine i musei di proprietà di enti che fanno capo alla Chiesa Cattolica? Stando al rilevamento del 2011, effettuato sulle 16 regioni ecclesiastiche e le 255 diocesi italiane, sono 783 (ai quali si aggiungono le sacrestie aperte e visitabili) di cui:

·        266 musei di proprietà diocesana, che comprendono 218 Musei Diocesani (nel 1997 erano 105; altri  potrebbero essere aperti entro qualche anno)
·        296 musei parrocchiali (in Piemonte se ne contano ben 66; 31 piccoli musei parrocchiali in Val d’Aosta) – su 25.000 parrocchie
·        146 musei di ordini religiosi
·        45 tesori della cattedrale
·        27 musei dell’opera del duomo
·        19 musei di confraternite
·        18 musei di santuari
·        12 musei dedicati esclusivamente all’arte sacra contemporanea, un’attenzione – quella nei confronti della produzione artistica del nostro tempo - in lenta ascesa, basti pensare al Padiglione riservato quest’anno al Vaticano nell’ambito della Biennale d’arte di Venezia.

Infine 81 musei sono di proprietà mista, una scelta (l’annessione di musei ecclesiastici a istituti museali civici) scarsamente apprezzata dall’autorità ecclesiastica che teme si verifichi, senza un preliminare progetto condiviso, l’assorbimento tout court di beni da parte di un museo istituito con altri obiettivi. Il timore è che, nel tempo, possa venir meno la proprietà dei beni.
Andrebbe, a mio giudizio, appurato se all’aumento di istituzioni museali ecclesiastiche di cui si è dato conto corrisponde il rispetto di una procedura di musealizzazione corretta e prudente, effettuata cioè inserendo nel percorso espositivo solo opere dismesse o che realmente necessitano di essere ricoverate in un luogo sicuro. Diversamente la fondazione di nuovi musei finirebbe per tradursi in un depauperamento del territorio, mai auspicabile. Inoltre si ha la sensazione che alla creazione di nuovi musei non corrisponda una chiara consapevolezza circa le attività che devono accompagnare la vita dell’istituzione, per il cui espletamento occorre preventivare annualmente costi che non sono limitate alla semplice gestione.


Qual è la finalità di questi musei? Lo si deduce dalla Lettera circolare sulla funzione pastorale dei musei ecclesiastici emanata nel 2001 dalla Pontificia Commissione per i Beni Culturali ecclesiastici, nella quale si raccomanda che i musei non siano “depositi di reperti inanimati, ma perenni vivai”. Con tale affermazione si vuole ricordare che il museo, nato come deposito di beni dismessi, non può limitarsi ad espletare una semplice funzione conservativa, ma deve estendere la propria area d’azione anche a iniziative di ricerca scientifica, conservazione, restauro, educazione museale, comunicazione, che sono il principale nutrimento di un museo. Ma l’espletamento di tali funzioni non può essere affidato solamente a volontari, che portano con sé passione ed entusiasmo, ma non necessariamente una professionalità specifica; inoltre spesso questi musei sono diretti da sacerdoti alla cui dignità sacerdotale non sempre corrisponde quella professionalità di cui il museo ha bisogno. Anche per questo, per la mancanza di una qualsiasi dimensione museologica e di specifiche competenze professionali, raramente questi musei rispondono alle esigenze contemporanee. Ecco perché quando si pensa ad un museo ecclesiastico, lo si immagina come un luogo chiuso, polveroso, inaccessibile, dove il tempo sembra essersi fermato, una specie di sacrestia aperta in maniera precaria, provvisoria. Devo ammettere che, in troppi casi, i musei ecclesiastici sono effettivamente questo. Ma proprio perché allo stereotipo corrisponda sempre meno il dato di realtà, l’Associazione Musei Ecclesiastici Italiani sta lavorando intensamente. Il direttivo di cui faccio parte, eletto nel 2010, ha concentrato la propria azione sulla formazione di competenze organizzando, ad esempio, nel 2011 un importante convegno sull’educazione museale, preceduto da un’indagine sullo stato dell’arte dei nostri musei in tale ambito. E’ stato infine redatto un documento nel quale vengono indicate alcune linee guida da seguire nella progettazione di questa attività, tra le più importanti e delicate di un museo. Il documento è stato quindi discusso nelle riunioni dei coordinamenti regionali.

Ma torniamo agli obiettivi: la Lettera pastorale indica il ME quale sede del coordinamento delle attività conservative, della formazione umana e dell’evangelizzazione cristiana di un determinato territorio. E’ infatti l’istituto che “documenta l’evolversi della vita cultuale e religiosa” di una comunità, “conservando materialmente, tutelando giuridicamente, valorizzando pastoralmente il patrimonio storico-artistico non più in uso”; lo può fare anzitutto riconnettendo tali beni al contesto di provenienza, che poi quasi sempre è quello su cui il museo gravita, trattandosi di un museo locale. Il progetto di inventariazione dei beni ecclesiastici presenti nelle chiese delle diocesi italiane ha prodotto un data base molto utile per supportare i musei in questo loro compito.
Il documento afferma infine che il ME aiuta la comunità a comprendere “l’importanza del proprio passato, a maturare il senso di appartenenza al territorio in cui vive, a creare una coscienza critica”.
E’ facile dedurre che molti di questi obiettivi costituiscono un terreno comune tra musei ecclesiastici e musei civici, tra istituzioni che operano su e per il territorio inteso “come il tessuto connettivo nel quale si radica e si distribuisce il patrimonio culturale di una comunità, sistema complesso di segni e patrimonio esso stesso, luogo di costruzione e riconoscimento delle identità individuali e collettive, continuum spaziale e temporale dotato di qualità peculiari: materiali, storiche, simboliche, relazionali, estetiche” (Per l’educazione al patrimonio culturale. 22 tesi, a cura di A. Bortolotti, M. Calidoni, S. Mascheroni, I. Mattozzi, F.Angeli ed.Milano,2008, p.59). I nostri musei, insieme, sono chiamati a stringere un patto, un’alleanza strategica, con la comunità locale e il territorio. Un legame che non va mai inteso come univoco e definitivo ma in continuo cambiamento ed evoluzione, così come lo è la comunità che interpreta il patrimonio. Come ci ricorda Simona Bodo, nella società multietnica e multiculturale in cui viviamo, il patrimonio non può più essere inteso solo come un’eredità, un insieme di beni statici, sedimentati, di valore universale, ma una risorsa che ci aiuta a interrogarci, a relazionarci, a superare le barriere interpretative. Il patrimonio è un insieme da ricostruire nei significati, da ricollocare in uno spazio sociale di scambio. E in questo processo il museo ha una responsabilità ben precisa.
Se queste sono le coordinate entro cui muoversi, non possiamo svilire una missione così preziosa riducendo il museo a ciò che non è, costringendolo a essere ‘altro’, a indossare “la maschera svilente dell’effimero”, confezionando prodotti di facile consumo per catturare visitatori diventati clienti. Il museo non può rinunciare ad alcune delle sue funzioni essenziali per corrispondere alle esigenze “dell’homo televidens, successore dell’homo sapiens”, per citare Germain Bazin. Ad esempio la funzione di ricerca, oppure quella educativa, che è ben altro rispetto al semplice intrattenimento che ci può stare, certo, ma a fianco di attività di altro peso, a progetti che creino competenze, abilità, partecipazione critica da parte dell’utente.
La politica purtroppo, come ben sappiamo e come ci ricorda la Mottola Molfin, non ha ancora compreso “che il nostro futuro culturale sarà necessariamente presidiato dai musei locali: senza di essi, senza il richiamo all’identità che essi praticano per tutti noi, saremo tutti più indifesi di fronte alle sfide della globalizzazione e agli incontri e scontri con le culture altre che segnano indelebilmente questo nostro tempo. Il ruolo dei musei oggi in Italia è quello di essere risorse di identità.

Per questo il museo dove porre al centro le persone che abitano i luoghi, che hanno ereditato e costruito il paesaggio, ne hanno formato gli strati della memoria: la cultura non può essere pensata come un prodotto confezionato ad hoc per il turista. Le scelte politiche di questi ultimi decenni, premiando le mostre blockbuster, i “musei dell’iperconsumo”, edifici atterrati come UFO nelle nostre città, i sistemi museali basati esclusivamente su dinamiche gestionali e economiche, hanno di fatto indebolito “il museo del genius loci” e prodotto una forte ma inevitabile omologazione culturale. Come uscirne? Mi pare sia questa la domanda che oggi tutti ci stiamo ponendo.
La soluzione sta nella capacità di costruire alleanze tra i nostri musei, creando reti di sostegno reciproco per fare fronte comune alle scelte insensate che ci travolgono ed essere più forti nel rivendicare il nostro ruolo. Occorre costruire ponti e non barriere. La diversità infatti va letta e rivendicata come risorsa.
Ho intitolato il mio intervento: “Musei ecclesiastici e musei civici: prove di dialogo”. So benissimo che talvolta questo dialogo non c’è stato: la giusta esigenza di far valere la specificità dei nostri musei ha portato spesso le realtà museali ecclesiastiche all’isolamento. Vittorio Sozzi, responsabile del Servizio Nazionale per il Progetto culturale della CEI, al convegno AMEI di Susa del 2005 affermava: “Il museo ecclesiastico si pone lontano dal modello dei musei del consumo culturale di massa che finiscono per comunicare anzitutto se stessi. Si distanzia anche dalla definizione di museo dell’ICOM. Perché in esso non c’è solo studio, conservazione, educazione, diletto. Le motivazione da cui nasce sono ulteriori e in gran parte radicalmente diverse.” Credo sarebbe stato più produttivo affermare che i nostri musei condividono la definizione ICOM di museo, ma la integrano con altre finalità: perché invece marcare la distanza che dovrebbe separarci da altre istituzioni museali? Perché utilizzare espressioni che segnalano la volontà di distinguersi e, in fondo, di isolarci?
Lo stesso ragionamento credo sia applicabile all’idea di museo che chi opera in un ente ecclesiastico deve maturare. Ci siamo mai chiesti perché si respira un atteggiamento di diffidenza nei confronti dei ME? Perché i visitatori entrano più facilmente in un museo pubblico che, pure, espone per lo più opere d’arte sacra? Perché percepiscono un modo diverso di presentare l’opera; perché in quel contesto le opere sono comunicate senza intenti apologetici; perché lì il visitatore non sente un condizionamento ideologico. La presentazione, se non vuole limitarsi ai soli credenti, non deve essere condizionata da una spinta missionaria o dalla pretesa di influenzare il visitatore e il suo accesso all’immagine. Ritengo infatti che in un ME l’accesso e la presentazione delle opere dovrebbe prendere in considerazione proprio coloro per i quali la prassi e la terminologia dell’ambiente ecclesiastico è sconosciuta o è diventata estranea e quelli che, nel loro modo di percepire, sono allergici ad ogni condizionamento, reale o presunto. Sono convinta che un ME debba diventare una sorta di ponte tra chi crede e chi no; un luogo capace di promuovere un approccio interdisciplinare all’opera d’arte sacra, offrendo al visitatore la possibilità di interpretarla utilizzando più chiavi di lettura. In questo consiste il suo compito formativo.
Tornando all’ipotesi di ‘fare rete’ (parola talmente abusata da diventare vuota di significati reali) in ambito canonico non esiste una vera e propria normativa al riguardo. Nella cittata Lettera della Pontificia Commissione del 2001, al punto 3.6 “Rapporti con altre istituzioni” si dice semplicemente che “occorre prevedere e sollecitare rapporti con altre istituzioni culturali, in particolare con musei pubblici e privati. Tale collaborazione deve essere attuata garantendo l’autonomia dei singoli enti e stimolando l’elaborazione di progetti comuni a vantaggio dell’animazione culturale del territorio.” Mons. Santi, presidente AMEI, nel suo recente volume I musei religiosi in Italia, sostiene che ha assoluta priorità fare rete con enti ecclesiastici (musei, archivi, biblioteche) rispetto ad enti altri e che spetta al Museo diocesano ungere da punto di riferimento per tutte le altre realtà museali ecclesiastiche. Santi prevede che i ME collaborino con altri musei ma a condizione che siano identificati gli obiettivi comuni e singole responsabilità; che ciascuno mantenga la propria autonomia e missione. Aggiunge che si possono fare accordi (scritti) su servizi comuni (bigliettazione coordinata ecc.) ma che occorre evitare forme di cogestione, commistione, “confusione”: “nulla impedisce – scrive – ai ME di collaborare alle iniziative di tali reti (provinciali ndr) ma è necessario che ciò avvenga con l’assenso dell’autorità canonica, salvaguardandone l’autonomia gestionale e culturale e le relazioni primarie nell’ambito ecclesiastico”. Di questi temi gli associati AMEI discuteranno ad Assisi nel IX convegno incentrato appunto su reti e sistemi. Mi auguro che qualcosa di più si potrà pensare e dire riguardo alla possibilità si cooperare con gli altri musei di interesse locale.
A mio parere infatti dobbiamo sforzarci di intrecciare relazioni virtuose tra i nostri musei, tra musei e istituzioni culturali presenti sul territorio (archivi e biblioteche anzitutto). Occorre costruire reti che si pongano obiettivi di tipo culturale, e solo in seconda istanza economici. Partendo dalle specificità che ciascuna istituzione esprime, possiamo rompere le separazioni interpretative, iniziare a pensare “al plurale”, così da restituire una lettura complessa, contaminata, del territorio in cui operiamo.
Ma credo sia altrettanto importante evitare di farsi mettere nell’angolo, offrendo il destro a chi ci accusa di attardarci su logiche elitarie e autoreferenziali. Il nostro modello di museo, come si è visto, non è quello di un luogo di esclusione, pensato da esperti e destinato ad altri esperti. Il museo a cui pensiamo è un museo “relazionale” che sappia porsi in ascolto del pubblico, che sia capace di utilizzare le nuove tecnologie e gli strumenti del marketing culturale, ma non incondizionatamente. Oggi ci viene richiesto uno sforzo ulteriore: interpretare la realtà, ascoltarne e scrutarne contenuti e aspirazioni; dare forma a questa realtà, comunicarla. Ma alla base di questo complesso programma c’è la volontà e la capacità di costruire esperienze condivise, come quella in cui oggi tutti noi siamo impegnati.

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