MUSEI CIVICI - QUALE FUTURO

MUSEI CIVICI - QUALE FUTURO

mercoledì 30 ottobre 2013

PRESENTAZIONE

I MUSEI CIVICI - QUALE FUTURO ?

E' il titolo della giornata di studio svoltasi venerdi 31 maggio 2013 all'Accademia delle Scienze, a Bologna.
                                            
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La politica di alto profilo che in questi ultimi decenni ha investito i musei civici della nostra regione rischia ora di non essere più sostenibile.
Dalla presa d’atto della loro identità fino alla valorizzazione specifica e in connessione con il territorio, il lavoro svolto per i musei da tecnici e amministratori è stato complessivamente meritorio. Ma nessuna conquista è per sempre, e mai come oggi la situazione oscilla fra condizioni ancillari al seguito di altre Istituzioni e fantasmi di ammodernamenti fuori controllo.
Le attuali carenze finanziarie concorrono a un abbassamento della progettualità scientifica particolarmente avvertibile nel campo dell’arte antica, mentre nella migliore delle ipotesi il dibattito resta confinato nella problematica gestionale o scende di livello nell’invocazione delle mostre come panacea di situazioni asfittiche, un aspetto, quest’ultimo, già superato nei fatti. L’apporto e il giusto uso delle moderne tecnologie, quando in essere, facilitano i compiti della comunicazione e gli obiettivi formativi propri della missione dei musei, ma non possono sostituirsi alla gestione tecnico-scientifica dei patrimoni in tutte le sue forme.
Si assiste così a progetti abnormi di assoluta inutilità e grande spesa come la proposta di riallestimento dei musei civici di Reggio Emilia o il disegno ridistributivo degli Istituti culturali del Palazzo dei Musei di Modena nell’ex-ospedale di sant’Agostino dal costo faraonico sopportato principalmente dalla Fondazione Cassa di Risparmio (già oggetto di dibattito sulla stampa fra Salvatore Settis e il Presidente della Fondazione); o a situazioni di stallo procrastinate nel tempo senza soluzione (il caso di Faenza) o a prolungati silenzi in ordine all’utilizzo di strutture monumentali del massimo valore per la comunità cittadina come il Palazzo Comunale di Bologna, svuotato dei suoi servizi amministrativi (e non solo), senza un progetto che identifichi in quegli spazi un percorso storico artistico di rilievo.
Su Bologna e i suoi musei grava poi la presenza di un nuovo soggetto, il Museo della città, che condiziona al ribasso le attività, mentre si profila all’orizzonte una ‘grande mostra’ -
La ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer - mutuata dal paniere incantatore di Linea d’Ombra di Marco Goldin. La giornata di studio, promossa dalla Sezione di Bologna con la collaborazione del Consiglio regionale di Italia Nostra, mira a una riflessione sulle dinamiche in essere, diverse da territorio a territorio, puntando sugli aspetti critici, le improprietà e la mancanza di una visione unitaria di lungo periodo.
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A seguire, gli interventi.

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I Musei civici: quale futuro?
giornata di studio
Accademia delle Scienze, Sala di Ulisse - via Zamboni 31, Bologna
Venerdì 31 maggio ore 9,30 – 17,30

Programma

Interventi generali (ore 9,30 – 13,00)

Daniele Benati
( Italia Nostra - Presidente  sezione di Bologna)
Marina Foschi
( Italia Nostra -Presidente Consiglio regionale Emilia Romagna -)
Saluti

Jadranka Bentini
(Italia Nostra- sezione di Bologna)
I musei civici, un problema politico attuale.
L’arcipelago bolognese, caso emblematico

Andrea Emiliani
( Presidente Accademia Clementina)
Generalità del museo civico

Angelo Varni
( Presidente Istituto Beni Culturali della regione Emilia Romagna)
L'Istituto per i Beni Culturali della Regione: politiche di intervento

Stefano Vitali
Soprintendente Archivistico per l’Emilia Romagna)
Ripensare la politica conservativa: poli archivistici e archivi della città

Domenica Primerano
( Museo Diocesano di Trento)
Musei ecclesiastici e musei civici: prove di dialogo

Maria Cecilia Fregni
( Università di Modena)
I musei civici nella prospettiva fiscale

Giovanni Losavio
( Italia Nostra – Presidente sezione di Modena)
Musei e Fondazioni (non solo bancarie)


Interventi delle sezioni (ore 14,30 – 17,30)


Marina Foschi
(Italia Nostra- Presidente consiglio regionale Emilia Romagna)
Luciana Prati
(Italia Nostra- sezione di Forlì)
Musei in comune. Situazione a Forlì

Marcella Vitali
( Italia Nostra – sezione di Faenza)
La situazione di Faenza. Analisi e prospettive

Ranieri Varese
( Italia Nostra – sezione di Ferrara)
Musei civici a Ferrara

Patrizia Curti
( Italia Nostra – sezione di Modena)
Musei civici a Modena

Claudio Franzoni
( Italia Nostra – sezione di Reggio Emilia)
Il riallestimento dei musei civici di Reggio Emilia

Aldina Bardiani
( Italia Nostra – sezione di Parma)
Parma, gioielli da valorizzare

Antonella Gigli
(Direttore Musei Civici di Palazzo Farnese – Piacenza)
I musei piacentini fra passato e futuro

Discussione

Conclusioni
Jadranka Bentini
(Italia Nostra – sezione di Bologna)

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I MUSEI CIVICI, UN PROBLEMA POLITICO ATTUALE.

I Musei civici, un problema politico attuale.
L'arcipelago bolognese caso emblematico
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Jadranka Bentini
Italia Nostra - Bologna
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Il Codice dei Beni Culturali contempla in un unico articolo, il 101, i musei, le biblioteche e gli archivi in una visione unitaria delle finalità di servizio pubblico  cui sono destinati.   Fare rete, o meglio fare sistema, è diventato così da incentivo per una economia dei servizi condivisa a fronte di una crisi di risorse che limita i margini di azione e di cui non si intravede il processo di reversibilità, un imperativo per il miglioramento e l’integrazione di tutto il complesso patrimoniale destinato alla trasmissione intergenerazionale.  Su questo solco la Provincia di Ravenna, e più largamente la Romagna, si sono mosse recentemente promuovendo un convegno il cui titolo “ Immaginare il cambiamento - Musei  archivi biblioteche: verso un sistema culturale romagnolo”, teso a ricercare risposte e convergenze su forme di gestione sostenibili degli istituti culturali locali partendo dall’esperienza positiva della rete Bibliotecaria di Romagna, nata più di 20 anni fa, e da quella delle Rete museale ravennate che concentra l’offerta museale più capillarmente distribuita dell’intero territorio regionale, per arrivare ad un sistema culturale romagnolo più complesso che comprenda tutti gli istituti culturali di ogni ordine tipologico ( sullo sfondo e come incentivo al traino sta l’ambizioso progetto di Ravenna capitale per il 2019).  Riguardo ai musei le situazioni in atto sono diverse da territorio a territorio e da città a città, con la Romagna più dinamica nell’intraprendere progetti di sistema e nell’esibire una maturità più accentuata in grado ancora di coniugare il recupero degli edifici monumentali con la rilettura dei centri storici e il potenziamento dell’offerta culturale museale ( si veda esemplarmente il recentissimo studio affidato dall’amministrazione comunale di Forlì per un riesame aggiornato delle potenzialità museali cittadine “I musei civici di Forlì - Ridefinizione di un progetto”, a cura di A. Emiliani e C. Mari, Regione Emilia-Romagna, IBC, 2013, che potremmo leggere come proiezione attuale della metodologia di lavoro a sua tempo usata per la definizione di grandi progetti museali a scala urbana, avviati e concretizzati dall’IBC negli anni ottanta su contenitori e materiali storici di riferimento nelle maggiori città della regione: Piacenza che costituì una delle tappe significative).
Secondo lo studio dell’IBC aggiornato al 2006, ma pubblicato nel 2009-10, la nostra regione vanta 379 musei, un quarto dei quali concentrato nella sola provincia di Bologna e la cui categoria prevalente è quella dei musei d’arte: dell’intero complesso, eminentemente di formazione storica, un’ottantina hanno aperto i battenti dal 2000, ad essi si sono poi affiancati da pochi anni i musei ecclesiastici, più nutriti quelli diocesani, meno corposi quelli parrocchiali con i quali si dovrebbe rafforzare un dialogo efficace: nella sostanza si tratta di un patrimonio capillarmente diffuso sul territorio e insieme a forte concentrazione urbana nei capoluoghi di provincia e nei centri urbani maggiori.  La produttività del settore, per il quale la peculiarità degli istituti che ne fanno parte è stata da sempre quella di forte alacrità di iniziativa e di mobilitazione trasversale di progetti, e non da oggi ( si ricorda l’attività dei singoli musei e la vera e propria politica museale promossa dall’IBC fin dal suo sorgere statutario, di cui il riconoscimento e l’applicazione degli standart di qualità per i musei quale traguardo prioritario per le prestazioni in tutti gli ambiti di attività è l’ultima tappa importante), ci pare debba continuare ad essere – e su questo di insiste -  pur nelle difficoltà odierne, quella di un’azione eminentemente tecnico-scientifica correlata all’identità del singolo ma in continua trasformazione nell’utilizzo di pratiche anche consumate come mostre, convegni, seminari, senza derive economicistiche di sorta ( nei fatti al tramonto ) o matrimoni impossibili. I musei sono una risorsa indiscutibile, ma nella galassia dei musei cresciuti numericamente senza una visione d’insieme, più o meno come le facoltà universitarie sul territorio della penisola, l’istituto museale, piccolo o grande che sia, ci appare oggi un soggetto depresso, se non inanimato, in progressiva solitudine, distanziato dai luoghi della contemporaneità come dagli investimenti pubblici e privati, in molti casi scomparsi dalla vita politica delle città con labile eloquenza solo in casi contingenti.
Per questi ultimi i tempi, si dirà, sono cambiati.   Non si parla più di leggi e di decreti varati dall’85 al 2000 la cui applicazione è sempre stata, in verità, malferma, disattesa  quando non avversata, ma la cui applicazione rispondeva a precisi criteri di ripartizione delle responsabilità e dei compiti, dalla progettazione al controllo ( L. 512/ 85, Istituzioni di Fondi per sponsorizzazioni accentrati al Ministero, Proventi del gioco del Lotto, Convenzioni fra organismi pubblici e Confindustria ecc. e se ne vorrebbe sapere di più sugli esiti dell’applicazione dell’art. 40 comma 9 del D. L. n. 201 del 6-12-2011, in materia di semplificazione amministrativa per le erogazioni liberali): l’accelerazione data dalla visione mondana mina spesso l’identità e la valorizzazione del patrimonio sedimentato; in via di declino - ma talora resiste- la spettacolarizzazione per ragioni di scarsità di investimenti mirati, si pensa di cedere alle lusinghe di un rammodernamento dei luoghi museali a fini più accattivanti per il pubblico per via di installazioni di strutture accessorie a detrimento delle forme storiche dell’esistente: a fronte di situazioni in essere già ricche e sfaccettate nelle tipologie, si creano nuovi soggetti museali mirati a condensare, attraverso ricostruzioni storiche allusive, le forme autentiche del reale; si imboccano strade costose, alternative a quelle a suo tempo viste e concordate, per risolvere problemi annosi di convivenze difficili e non funzionali fra istituti di varia natura; si assiste allo scorporo di funzioni tecnico-scientifiche delegate ad altri settori con mortificazione delle professionalità esistenti che sono le vere detentrici della produzione museale,  da riformare e calibrare in ragione dello sviluppo dei nuovi metodi di comunicazione e di vitalità complessiva dei musei ( e in tal senso la promozione, da parte dell’AMLI, di promuovere un percorso di formazione specifico per operatori museali, raccolto dal MuSec di Ferrara, ne è una risposta).    Dare voce critica a questi casi sarà compito del convegno, non per amore di polemica o nostalgia del passato, ma per costituire una base di discussione più ampia nella piena consapevolezza che difendere i musei pubblici non sia solo un compito, ma un preciso dovere civico e sociale.

 E’ chiaro che i musei esigono non solo attenzione, ma risoluzioni, pena la loro scomparsa e neanche troppo lenta.  Nulla è per sempre,  inutile negarlo.
Nel sapiente saggio di Claudio Leombroni sul n.° 14 dei Quaderni di Didattica museale della Provincia di Ravenna, in previsione di un progetto di convergenza fra musei, biblioteche e archivi, l’autore asserisce che “ la costruzione di un museo moderno immerso nell’universo digitale, non si può ispirare ad un principio selettivo, ma piuttosto ad un principio partecipativo che riconosce nel pubblico la possibilità di interagire e di ‘manipolare’ gli oggetti a seconda delle loro preferenze”.  Il concetto è quello di una progressiva sfumatura dei confini fra musei, archivi, biblioteche, questi ultimi due molto più avanzati dei musei nell’applicazione di comuni obiettivi come nel superamento di demarcazioni settoriali dovuti alla compartecipazione già collaudata in servizi unici a cominciare da quelli digitali   (vedi L. R 18/2000 in materia di biblioteche, archivi storici ecc.).  Ma se è pienamente comprensibile la volontà di realizzare percorsi condivisi attraverso l’uso delle più moderne tecnologie fra biblioteche e archivi da una parte e utenti dall’altra, per creare quella ‘narrazione’ di cui ha parlato anche Stefano Vitali nello stesso convegno ravennate in apertura, più sfumata appare la tassonomia di relazioni proposte anche per i musei e riassunte nei termini cooperazione, coordinazione, collaborazione, convergenza, come risolutive per la loro vitalità: si tratta piuttosto, ci pare, di forme inter-relazionali ormai indispensabili nella promozione culturale come nell’economia di gestione di tutti gli istituti culturali per i quali soprattutto l’applicazione della tecnologia al servizio della conoscenza – ed è questa che  i musei devono alimentare con metodologie al passo con i tempi, pena la loro estinzione -  e per quella che si usa oramai definire ‘democrazia partecipativa ‘gioca un ruolo ormai irrinunciabile e insopprimibile, costituendosi come forma strumentale più economica e dunque più sostenibile per tutti.  Ampio spazio è dato in tal senso dal piano strategico metropolitano di governance sui distretti culturali all’osservazione fra Comune e Provincia di Bologna. 
Ciò che preoccupa , proprio a fronte della crisi economica, è la crisi più generale del concetto di patrimonio come sedimentazione fisica di opere e oggetti connaturati alla città storica, anch’essa in crisi, nonché il rilassamento della ricerca storico-artistica come base di progresso scientifico.
“ Del museo deve essere garantita la continuità e il permanere nel tempo quale polo di aggregazione e motore della memoria e di formazione.” Sono parole dell’economista Irene Sanesi.   Le ricordava Andrea Emiliani nel lungo saggio Il Museo nella città italiana- Vicende storiche e problemi attuali , Terni, Motta ed. 2004, non senza rammentare che la gestione del museo d’arte è essenzialmente quella artistica, cioè “ la ricchezza tecnico-scientifica che deriva da una saggia visione epistemologica e attraente del museo  e del patrimonio.  Essa illumina lo spazio e il tempo, alla cui intersezione si alimenta la conoscenza dell’opera d’arte e si premia la cultura più equa del decentramento e del riequilibrio territoriale e urbanistico italiano”.    E qui sta tutta davanti la concezione dello stesso art. 9 della Costituzione come, soprattutto, la ineguagliabile differenza o forse meglio “anomalia italiana”, come è stata definita, vale a dire quella diffusione e quella stratificazione patrimoniale e museale della penisola dall’equilibrio difficilissimo nella pratica del suo governo, immaginiamo se in pericolo di sottostima, confinato fra gli ultimi o attaccato da pratiche  incongrue.   Si ha la sensazione che non poche amministrazioni locali, messe di fronte alla gestione ne intendano solo i termini strumentali ultimi del processo qualificante dimostrando con ciò di non avere ben presente il valore sociale del patrimonio artistico e storico. 
Si sente dire da qualche parte, neanche troppo lontana, che i musei di arte antica andrebbero chiusi: troppo costosi in termini finanziari, poco produttivi, tempi troppo lunghi nella gestazione delle azioni; più vantaggioso guardare il presente senza la “zavorra”del passato, meglio organizzare “eventi”in cui la creatività, parola di cui sembra essersi perduto il vero significato, sia all’ordine del giorno.   Dietro la mancanza di denaro –  fra liquidità e bilanci tardivi – si nasconde, e neanche troppo velatamente, una certa ignavia di comportamento, un distratto affidamento della sorte dei musei e del patrimonio civico ad altri, una sorte di delega all’intervento in materia ad altri soggetti i quali operano certo non per sussidiarietà cercando di colmare vuoti difficilmente recuperabili anche alla lunga distanza.
Oggi che si è corrotto il rapporto fra quantità e varietà di persone e luoghi congestionati della città, non solo storica, dovrebbe prevalere nel governo del patrimonio come nell’educazione civica il concetto di bellezza funzionale contro il degrado: e in tal senso va ripensato anche l’apertura al turismo delle cosiddette città d’arte come l’applicazione di modelli gestionali “ multiscala” studiati per territori omogenei nella sedimentazione e nella diffusione di patrimoni museali.
La crescita dell’arte contemporanea, concetto assai mobile, ma non per questo nemico della storia, del già accaduto, ha spinto in molti casi ad una enfatizzazione della realtà in movimento contribuendo ad ingessare i musei storici che sono invece, e non solo per definizione, luoghi di accumulo di materiali scanditi nel tempo senza cesure selettive o pregiudiziali.  I musei, lo riconosciamo tutti, non sono luoghi statici, ma dinamici, da difendere come tali, ma anche da aprire a nuove dimensioni in relazione alle nuove istanze che avanzano - nuove acquisizioni, internazionalità, multi etnicità, complementarietà con le altre tipologie di materiale storici ecc. – entro le quali anche il contemporaneo deve svolgere lo stesso ruolo di bene comune e di bene relazionale, sul piano della pari dignità ( in tal senso ci pare stimabile l’istituzione dell’Osservatorio per il contemporaneo  che garantisce l’attendibilità dei progetti sul contemporaneo fra Museo Marini di Prato e l’Ente Cassa di Risparmio locale, al pari di quella relativa all’Osservatorio dei mestieri storici).

Ho parlato di punti nevralgici in talune città sullo sfondo odierno di una crisi che, se non consente risposte immediate, almeno esige attenzioni e ipotesi di possibili percorsi per i musei sottoposti ad una rapida accelerazione di cambiamenti specie quelli di matrice ‘antica’.  Leggo sulla stampa di ieri che il Comune di Bologna ha finalmente maturato l’idea di candidare i portici quali Patrimonio mondiale dell’umanità. La cosa da un lato mi conforta perché finalmente risponde ad una domanda fatta a suo tempo agli allora candidati amministratori rimasta senza risposta, dall’altro mi sorprende avendo constatato da anni l’impotenza a risolvere i problemi di degrado e di sporcizia che affliggono Kilometri l e Kilometril di portici fra mancanza di manutenzione, rotture pavimentali, cedimenti, corrosione di capitelli, imbrattamenti, saracinesche e portoni bellamente dipinti a figurine, insomma tutto quel repertorio di nequizie che va sotto il nome di degrado.  Se questa decisione sarà accompagnata dalla precisa volontà di trovare metodi di risarcimento all’attuale stato e serie prospettive di controllo e di buona manutenzione, vorrà dire che il Comune ha finalmente deciso di reinvestire sulla città storica e che anche i musei, ad essa connaturati, ne saranno coinvolti.   Ma parlare di questo ci porterebbe lontano, anche se non fuori campo, trattandosi di materia e corpo fisico di cui sono fatti anche i musei: la crisi dei centri storici, definizione che a molti pare obsoleta, va infatti di pari passo con l’analoga dei musei di arte antica.
La domanda che affligge non solo Italia Nostra, ma tanti cittadini bolognesi, è la sorte di Palazzo d’Accursio ora che i servizi amministrativi, anagrafici e gli assessorati sono stati spostati a Liber Paradisus e l’edificio suona in larga misura come una scatola vuota.   Il vecchio progetto di utilizzo a fini museali del palazzo legato ai finanziamenti del 150° dell’Unità d’Italia, che ne prevedeva anche la riqualificazione strutturale completa e le dotazioni di sicurezza,  si è smarrito per dirottamento di investimenti e non è comparsa finora alcuna alternativa ad utilizzi parziali o occasionali, quando non impropri.   Ci si aspetta che dopo il riordino delle strutture organizzative di riferimento dei musei sfociato, dopo anni di instabilità, nell’accorpamento in una unica Istituzione Musei di tutti gli istituti della città, ben 13, articolati in aree disciplinari, fra i quali dividere finanziamenti sempre più risicati, questa elabori un piano di riordino delle raccolte ancora in deposto, inespresse o in sofferenza, e una loro destinazione.  Per ora, in attesa di una rivalutazione complessiva specie delle presenze storiche, azioni di una certa eloquenza si sono rivelate esclusivamente quelle correlate a rivisitazioni con cadenza annuale di appuntamenti fieristici a valenza economico-culturale come Arte Fiera e  Arte Libro, insieme ad alcune iniziative espositive singolari, piccole ma di pregio, e la messa a punto di siti didatticamente davvero esemplari, costruiti dal Museo Archeologico, decano della buona didattica e della ricerca nell’ambito del collezionismo dell’antico, e del Museo del Risorgimento in congiunzione con la Certosa di Bologna.
Un articolo ben noto del Giornale dell’Arte del novembre scorso parlava di “dotta decadenza di Bologna” a fronte del modello di conservazione e progettualità del recente passato.    L’annunciata grande mostra La  ragazza con l’orecchino di perla, promossa dalla Fondazione Carisbo, non ci sembra andare nella direzione giusta, piuttosto raccogliere tardivamente una ben nota forma di evento a fini turistici, attivato attraverso il prestito di capolavori altrimenti visibili nei musei d’origine.  L’argomento  è stato al centro di una recentissima polemica sulla stampa a proposito di finanziamenti alla cultura fra l’ assessore Ronchi e la Fondazione Carisbo con ‘Genus Bononiae’, sullo sfondo delle mancate risorse al teatro Comunale e più largamente alla cineteca e ai musei in tempi di crisi.   Difficile non essere d’accordo sulla dispersione di risorse in iniziative effimere a detrimento degli Istituti culturali permanenti, come discordi sulla convergenza in grandi progetti di strutture non ancora esistenti ( l’Auditorium di Renzo Piano).     Ha ragione del resto Roversi Monaco quando ricorda il salvataggio e la valorizzazione di palazzi storici oggi confluiti in Genus Bononiae – Musei della città, struttura che opera con una intensa attività di coinvolgimento urbano.   Proprio a fronte delle iniziative espositive  intraprese a Palazzo Fava, incentrate sulla valorizzazione delle raccolte della Fondazione, i maestri in esse presenti, sul collezionismo più nobile che contraddistingue la città e su artisti italiani in parte inesplorati, giunge stonata la proposta del pur magnifico Vermeer, eccedente da ogni buon indirizzo precedente.
Le mostre ( città come Ferrara, Parma e Forlì - quest’ultima con la Fondazione Cassa dei Risparmi in consorzio di intenti con l’Amministrazione comunale, nell’utilizzo del San Domenico, ha saputo coniugare con intelligenza l’allestimento di grandi mostre con il patrimonio artistico della città e del territorio ), hanno dimostrato di non essere in grado di generare un reale rafforzamento dei musei, perché rivolte a rafforzare sopratutto il concetto di città d’arte turisticamente intesa, da assaggiare fuggevolmente in un’economia ristretta di tempo.      E’ un sentire allargato, non solo di Italia Nostra, quello dello scollamento a Bologna fra amministratori e Fondazione Carisbo negli investimenti per la cultura e i musei, vissuti come attori separati che seguono piste diverse senza un piano di riferimento unitario ( e quest’ultimo dovrebbe essere elaborato dal Comune).
Anche il Museo della città rientra in questa logica di ‘divergenze parallele’, potremmo chiamarle.  Italia Nostra ha già espresso le sue riserve in merito, che qui si omettono per brevità, condensate nell’intervento dell’allora Presidente nazionale, Alessandra Mottola Molfino, in occasione di una tavola rotonda sui musei promossa da Arte Libro nell’ottobre del 2009.  A caldo si parlava di invasività, costi eccessivi, mancanza di un progetto unitario storico-scientifico di riferimento.  Oggi, a museo collaudato, non ci sembra che le intenzioni iniziali di farne un laboratorio per la storia della città connesso ad altre realtà abbia avuto esiti tangibili, se non come stazione orientativa per le scuole.     Un ‘museo della città’ modernamente inteso in una città come Bologna che della conservazione delle sue forme ha fatto esercizio continuo per decenni, dovrebbe  presentarsi come un museo interattivo sul tipo torinese, per intenderci ( un progetto cui hanno partecipato Enti, Istituzioni pubbliche, istituti culturali supportati dalla Compagnia di san Paolo), in cui gli strumenti tecnologici e filmici in campo, ai quale è affidata la narrazione della città, da accessori divengono “medium” essenziali del museo stesso, rinunciando da un lato a racconti fatti intorno ad oggetti decontestualizzati o a teatri ricostruiti, e dall’altro facendo interagire in un unico sistema musei biblioteche e archivi in continua evoluzione: da portale d’accesso a viaggio spettacolare integrato nella storia della città.

I.B.C. - -POLITICHE DI INTERVENTO

L'Istituto per i Beni Culturali della Regione:

politiche di intervento

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Angelo Varni
Presidente Istituto Beni Culturali della regione Emilia Romagna

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L'IBC, anche sul tema specifico dei musei, del loro ruolo, della loro presenza nella società del futuro ha la buona sorte di potersi avvalere dello sguardo lungo gettatovi dalle riflessioni consegnate da uno dei padri fondatori, Andrea Emiliani, in quell'aureo e solo in parte ascoltato libretto scritto in occasione della nascita dell'Istituto medesimo, dal titolo sinteticamente evocativo, Una politica per i beni culturali. Laddove individuava come conclusa l'epoca di una certa tipologia di museo conservativo - di deposito, come lo definiva -  nell'arco di tempo tra passaggio di Napoleone e soppressioni ecclesiastiche del decennio sessanta dell'800.
Certo non ne negava la fondamentale  funzione svolta di salvaguardia, unita ad una capacità di preservazione, di luminosità, di studio e utilizzazione sociale. Ma, proiettandosi in un futuro che pensava imminente, ne amplificava la logica attraverso una sua immersione ambientale e territoriale, che andava oltre l'accentrarsi in  un sol luogo  degli oggetti di culto estetico, per disporli - diceva - "in un'ampia rete di relazioni e di segni". Spiegando che in tal modo non era il museo ad essere posto in discussione, bensì  quella sua  specifica modalità propria di una contingenza temporale,  a favore - affermava - di una sorta di  conoscenza " circolare" , a " rete" - una parola magica per l'oggi, quasi consegnata ad un futuro che Emiliani teorizzava in un auspicio di rinnovamento tecnologico e metodologico di tono profetico- , dove non avvenisse che " privati dei loro significati storici, gli antichi oggetti d'uso, i secolari agglomerati urbani, le opere più sostanziali dell'uomo che hanno condizionato la natura fino a  mutare profondamente paesi, climi, corsi d'acqua, vengano destinati alla distruzione e alla dispersione se non siano ricollocati in una loro mappa storico-antropologico".
C'è in queste considerazioni ben di più che un pensiero specificatamente museale, nell'ansia si superare le separatezze tra luoghi espositivi di cose culturali chiusi nella loro tradizionale autoreferenzialità tipologica, estetica, categoriale. C'è, a mio modo di vedere , l'esigenza di far intendere che i musei esistono in un determinato luogo perché ne rappresentano la storia civile, artistica, religiosa, istituzionale. Di renderli, ancora, permeabili ad un rapporto con i toni e gli assetti della società che li ha costruiti e quindi con l'insieme di quella dimensione culturale, di quella " rete" , appunto, di presenze che ne danno il senso, ne spiegano le relazioni, ne delineano la storia che parli agli uomini, di là dalle suggestioni degli sguardi ammirati per il singolo oggetto artistico, il curioso manufatto, il prodotto della scienza, del raffinato artigianato o di una modalità perduta di vita collettiva.
Con questo l'Ibc non intende naturalmente disconoscere il costante, puntuale lavoro di accreditamento qualitativo svolto in questi decenni per preservare e valorizzare contenuto e contenitore di questi luoghi museali, al fine proprio di farne comprendere meglio al visitatore il senso di una presenza culturale mai fine a se stessa, in grado di trasmettere la propria storia complessiva, la propria realtà di esistenza attiva in un determinato ambiente sociale. Senso, dunque, presenza storica, relazione sociale, ho detto.
Ma questo è stato e dovrà continuare ad essere frutto di analisi e di ricerca degli operatori specializzati; non certo di improvvisati manager di un'illusoria ed improbabile " economia della cultura", alla ricerca di oggetti per un nuovo culto laico da offrire all'adorazione senza luogo  e senza tempo di un pubblico estraneo a qualsiasi considerazione, appunto, di senso, di presenza storica, di relazione sociale. Un pubblico che, con la sua massiccia partecipazione , dovrebbe garantire il valore economico - divenuto l'unico interessante - di tali oggetti, trasformati - secondo la dissacrante constatazione di Jean Clair - in " reliquie" di una civiltà passata da comprendere per incanto attraverso l'occhiata distratta di un assembramento uniformante, con la stessa inesistente adesione con cui si guarda uno spettacolo televisivo, si sfoglia una rivista patinata, o si scorrono in un succedersi di click le informazioni delle home page scorrenti in internet.
Terribile la descrizione che ne fa sempre Jean Clair, quando constata l'accalcarsi di questa folla non più unita " da una fede comune ,religiosa, sociale o politica che sia" che trova nel culto dell'arte " la loro ultima fede collettiva" . Una folla che percorre in gruppo le sale, " fotografandosi a vicenda come per soffocare, con l'uniformità del comportamento e l'identità delle azioni, il sospetto da cui a volte [è] sfiorata: che neanche lì ci si possa aspettare qualcosa".
Ricorda ancora il nostro museografo francese di superiore esperienza maturata nelle principali istituzioni espositive -ripercorrendo le parole scritte dal fondatore del parigino museo delle Arti e Tradizioni popolari -  che il successo di un museo sta solo nella capacità di insegnare qualcosa ai visitatori. Non si valuta dai numeri dei biglietti staccati o degli oggetti esposti, ma dal come i visitatori hanno potuto trarre beneficio dall' ambientazione delle cose nel loro contesto umano. Altrimenti  - conclude con un'immagine ad effetto - non è un museo, ma un " mattatoio culturale".
È, dunque, ferma convinzione dell'Ibc mantenersi ben dentro queste linee operative, che stanno  inscritte nello stesso statuto fondativo. Pensando, con Marc Fumaroli, che il museo sia " prima di tutto e soprattutto un focolare della conoscenza, nel suo duplice impulso di memoria e di invenzione, e uno strumento di istruzione". Che sia quell'istituzione in grado di conservare le bellezze e le testimonianze del passato, non come un muto lapidario, bensì per riuscire a farle parlare all'uomo del tempo presente.
 Del resto, ci è stato insegnato, fin dall'inizio l'uso stesso, cinquecentesco soprattutto, del concetto di museo, ci riporta ad una situazione di distacco dal fluire dalla quotidianità per un appartarsi nello studio e nella meditazione a contatto, appunto, con le muse, ma per approfondire attraverso gli oggetti contemplati la comprensione dell'uomo, della sua arte, del suo rapporto con la natura , anch'essa da analizzare in tutte le sue manifestazioni. "Macchina per la conoscenza" è stato detto; una conoscenza che, dopo le rivoluzioni democratiche, si è inteso far fluire verso il grande pubblico, ma senza che questo attenuasse quell'atmosfera di sacralità " laica" insita nel concetto stesso del museo.
 Un compito non facile, indubbiamente; suscettibile di restare paralizzato tra ripetizione di consunti modelli di chiusure in una fissità antiquaria, e fughe in avanti verso una miracolistica devozione nei confronti dell'utilizzo delle nuove tecnologie, oppure un'interpretazione dei luoghi museali quali spazi destinati ad un nuovo superficiale loisir verniciato di aspirazioni culturali.
Si tratta, cioè, di trovare un equilibrio tra una diffusione di conoscenza che intercetti l'attuale livello di spettacolarizzazione, superando le barriere specialistiche ma senza sminuirne la funzione di cattedrali dell'arte e della scienza; bensì facendo entrare la " gente" in tali cattedrali perché vi leggano la loro storia. In modo non dissimile da come venivano lette le storie  dipinte  nelle cattedrali del sacro, quali naturali espressioni dei sentimenti religiosi del territorio. Per di più molte delle situazioni esposte hanno provenienze esterne rispetto al luogo e quindi diviene indispensabile spiegarne le origini e i transiti consentendo un dialogo con altre culture ed altri mondi, in particolare
adatto al coinvolgimento dei " nuovi" cittadini.
Ma per giungere a questo, occorre con tutta evidenza mantenere inalterato l'approfondimento conoscitivo in merito al succedersi degli eventi che hanno portato un oggetto, e non altri, a meritarsi l'esposizione, a subire quel distacco dal suo luogo e dal suo tempo d'origine, che , non spiegata nel suo svolgersi concreto, lo fa divenire - come è stato scritto - " parodia di se stesso", di là dall'eventuale diletto estetico in grado di procurare al visitatore. Tanto più vero un simile obbiettivo di fronte al diffondersi di un collezionismo museale allargato a tutta la produzione dell'attività umana, anche a quella estranea alla tradizione classica od accademica. Con un intrecciarsi sempre più ricco di significati evocativi del compito - diciamo così - sociale dell'oggetto, tutti da chiarire al visitatore, altrimenti più che mai disperso in un succedersi di reperti, diversi da quanto esposto sugli scaffali dei grandi magazzini solo perché raccolti all'interno della solennità sacrale, appunto, di un museo; ma senza che il percorrerne le sale segni una traccia di reale crescita della formazione di una consapevole comprensione di ciò che dovrebbe trasmettersi  alle  coscienze da quanto visto. Sia, perciò, qualcosa di più dell' illusione di aver partecipato ad un'immersione nel mondo della cultura, di cui si conserva con orgogliosa superficialità una doverosa traccia nelle foto impresse nei telefonini.
Nessuna rincorsa, dunque, all'evento maestoso ma effimero, destinato a ricadere su stesso dopo esser riuscito magari a smuovere folle di curiosi sollecitati dal richiamo pubblicitario di un " dover esserci". Ma quanto utile ad una continuità di vera azione culturale, di approfondimento conoscitivo, di reale valorizzazione del patrimonio? Non dissimile, in questo, dalla frenesia presenzialista dei festival e dalla loro illusoria capacità di trasmettere per incanto conoscenza sui temi più svariati.
Se è dunque vero che le esposizioni presenti nei musei hanno ai nostri occhi il compito di far da tramite tra quanto il visitatore osserva di concreto e il mondo di riferimenti invisibili da esso evocati, fatti di richiami alla storia, alla tradizione, all'arte, alle vicende identificative, in definitiva, di un'epoca, di un mondo, di una comunità , diviene indispensabile che il museo sappia di tempo in tempo produrre una cultura evocativa di sé adeguata al mutarsi della dimensione culturale in cui è immerso. Offrendo, secondo i compiti tradizionali assolti dai museologi, una sapiente collocazione degli oggetti secondo percorsi di contestualizzazione interpretativa, sì da farne comprendere e da divulgarne la funzione rappresentativa del mondo dal quale proviene e da renderlo in tal modo leggibile a chi, attraverso di esso, può e deve ritrovare il senso e i tramiti della società del suo oggi comunque collegata a quell'ieri.
Da sempre, dunque, il museo, inteso nella sua funzione fondamentale e durante il suo percorso secolare, deve rispondere ad un bisogno di conoscenza, all'inizio riservata ad una cerchia ristretta di "collezionisti" , di " artisti" , di " scienziati", e poi, a confronto con le istanze della " democrazia", divulgata ai cittadini tutti. Una funzione assolta solo e sempre attraverso ricerche e documentazioni in grado di spiegare l'oggetto esposto, di farlo partecipe di un percorso conoscitivo esemplificativo di una realtà più generale, artistica, sociale, naturalistica, tecnica che fosse. Una funzione che richiede competenze scientifiche, non meno che sensibilità verso l'organizzazione delle modalità espositive: né rincorse allo stupefacente fine a se stesso, né limitazione ad una semplice attività di illustrazione didattica, dunque; con sempre una sorvegliata attenzione ad una ricerca interpretativa mai di parte, preconcetta, fuorviante, ispirata invece, ad un senso di superiore moralità che sola possa garantire una corretta lettura dei significati mostrati da quello specifico museo.
Se tutto questo è vero, forse la sfida cui l'Ibc si deve apprestare diviene quella di favorire simili compiti di illustrazione, collocazione e divulgazione scientifica, ponendosi a confronto con le nuove tecnologie. Cercando, cioè, di capire se queste davvero sono e saranno in grado di meglio consentire, con le loro amplificazioni di tempo e di luogo, con la capillarità del loro diffondersi, con la loro facilità di aggregare dati, nozioni, immagini, suoni, richiami delocalizzati nello spazio e intrecciati nelle diverse realtà , di aiutare gli operatori museali a svolgere al meglio il loro immutabile lavoro di produzione di senso.
Non si tratta, cioè, ormai di inseguire gli esiti, per tanti aspetti stupefacenti, delle ricostruzioni virtuali del passato scomparso, che magari può continuare ad attrarre come  gioco didattico od una sorta di " porta di ingresso " , di " biglietto da visita" per stimolare i moderni visitatori. Né di indulgere ad un nuovismo tecnologico con la giustificazione di riuscire ad interessare in tal modo il mondo giovanile. E neppure di limitarsi ad un utilizzo strumentale di una tecnologia capace di assemblare serie digitalizzate di oggetti e di dati. Tutto ciò mi appare, per quanto io sia un antiquato osservatore dell'odierno reale, obsoleto, quasi scontato agli occhi delle generazioni cresciute all'ombra del computer. Persino le invenzioni dei musei della scienza , tipo la parigina Villette, appaiono superate agli occhi di chi se le ritrova più o meno puntualmente nel proprio smartphone e restano relegate ad attività orientative per la didattica degli alunni più piccini.
Credo, invece, sia indispensabile misurarsi con i processi di analisi del reale affidati ad una tecnologia in continua evoluzione, ma che ha abbandonato il gusto per gli effetti del meraviglioso e dello stupefacente, dedicandosi invece alla ricerca dei mezzi più funzionali a realizzare al meglio gli obbiettivi di sempre della scienza, facilitando - come detto - i percorsi spazio-temporali, l' esame delle fonti, la comparazione interdisciplinare e così via. Tutto quanto, vale a dire, rappresentava e rappresenta il cammino verso una trattazione storico- scientifica di quanto esposto in un museo e dei legami di questi oggetti con quanto possa contribuire alla loro contestualizzazione, di là dalle tradizionali divisioni fra settori disciplinari e categorie espositive, andando sempre più facilmente verso quel concetto " a rete" significante un'intera dimensione sociale, che - come detto in apertura- il nostro Emiliani preconizzava quarant'anni fa.
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POLI ARCHIVISTICI E ARCHIVI DELLA CITTA'

Per una nuova politica

di conservazione degli archivi:

i poli archivistici

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Stefano Vitali
Soprintendente Archivistico per l' Emilia Romagna

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Da qualche anno nel mondo degli archivi italiani si è cominciato a discutere su nuove forme di organizzazione della maglia degli istituti di conservazione che siano più rispondenti alle modalità di produzione e di sedimentazione della documentazione che caratterizzano l'epoca attuale e che al tempo stesso fossero più rispondenti alle esigenze dei ricercatori e dei cittadini nel loro complesso.
            Alle origini di questo dibattito vi è stato, alla fine del secolo scorso, il tentativo di un ripensamento profondo del modello istituzionale di conservazione della memoria documentaria affermatosi in Italia, come negli altri paesi europei nel corso dell'Ottocento, un modello nel quale lo Stato gioca il ruolo di protagonista centrale nel determinare le politiche conservative: ne detta le priorità, ne scandisce i tempi, regola i diritti e i limiti di accesso alla documentazione, stabilisce i requisiti professionali del personale addetto. La sua affermazione costituisce un elemento ricorrente nelle fasi di formazione e consolidamento dei moderni stati nazionali, nel quale si incrociano e confluiscono istanze diverse che sono tipiche dei processi di nation-building. In primo luogo l'aspirazione a radicare nella tradizione storica l'origine e la legittimazione dello Stato nazionale. In secondo luogo, le esigenze di conservazione e di trasmissione alle generazioni future della memoria documentaria prodotta dallo Stato nazionale. Sul primo versante, la costituzione di moderne amministrazioni archivistiche va ricondotta nel quadro delle molte iniziative intraprese dagli Stati nazionali per fondare una propria memoria storica, quali la costituzione di una rete di istituzioni destinate a conservare, studiare ed esibire il patrimonio culturale della nazione come elemento di identità e coesione nazionale, la fondazione di istituti storici, la promozione di imprese editoriali tese alla pubblicazione dei “monumenti” della storia della nazione, il sostegno offerto dallo Stato alla professionalizzazione degli studi storici.
            In Italia tale modello si è affermato in primo luogo attraverso il processo di costituzione della rete degli archivi di stato, che avviatosi all'indomani dell'Unità d'Italia, sulla base degli istituti ereditati dagli stati preunitari, si è in realtà completato solo fra gli anni Quaranta e Sessanta del Novecento, quando, prima grazie alla legge archivistica del 1939, poi al DPR 1409 del 1963, sono stati costituiti archivi di Stato in ogni provincia.
            Si è trattato di un processo che, in realtà, non si è affermato in un vuoto assoluto di politiche conservative del ricco patrimonio archivistico ereditato dai secoli precedenti e diffuso per l'intera Penisola. In realtà fra la seconda metà dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, presero piede, soprattutto nelle regioni dell'Italia centro-settentrionale, iniziative di conservazione e promozione delle fonti documentarie avviate al di fuori della rete degli archivi di Stato, ancorate ad una dimensione municipale, spesso connesse allo sforzo allora intrapreso dalle classi dirigenti locali di definire, attraverso il recupero di tradizioni storiche locali e il culto dei monumenti e delle memorie cittadine”, un orizzonte simbolico che permettesse di far emergere, sul comune terreno della nazione, identità cittadine forti e radicate nel passato. Protagonisti di questa politica locale di salvaguardia e valorizzazione degli archivi furono società e deputazioni di storia patria, eruditi locali, biblioteche cittadine, musei civici, amministrazioni e amministratori comunali, che, con finalità e ruoli diversi, si adoperarono in non poche realtà, spesso con un impegno protrattosi per anni, a concentrare gli archivi dispersi, provvedere al loro ordinamento e alla loro inventariazione, a pubblicarne i documenti più importanti, ad aprirli, per quanto possibile, alla pubblica fruizione. Così, in non poche città italiane, l'attuazione dei provvedimenti normativi del 1939 e del 1963, che vennero a sancire definitivamente il preminente ruolo dello Stato nella gestione e nella salvaguardia del patrimonio archivistico nazionale, si realizzò attraverso il semplice mutamento di denominazione e di incardinamento giuridico-amministrativo di istituzioni municipali già consolidate che non costituì in genere un momento di netta discontinuità né di sede né di attività.
            L'aspetto paradossale di questo indirizzo stato-centrico nelle strategie conservative degli archivi nel nostro paese è che esso è giunto al suo culmine nel momento in cui si ponevano i presupposti per l'affermazione di un fenomeno di segno del tutto opposto. Negli ultimi decenni del Novecento, si è infatti andata infittendo sul territorio, grazie a spontanee dinamiche sociali e culturali, più che a consapevoli disegni istituzionali, una rete di luoghi-istituti e di iniziative di conservazione pubbliche e private che hanno fatto sì che la disseminazione e il policentrismo conservativi costituiscano oggi il tratto caratterizzante del panorama archivistico nazionale. Con la crisi di risorse e di prospettive politico culturali, che ha investito negli ultimi dieci anni l'Amministrazione archivistica statale, gli stessi archivi di Stato periferici, perdendo la centralità istituzionale e culturale che avevano nel passato, sono diventati una fra le molte componenti di questo nuovo modello di conservazione. Più che dall'appartenenza ad un rete nazionale governata dal centro, la loro identità si definisce sempre più in ambito locale mentre l'efficacia della loro azione è direttamente proporzionale alla capacità di rispondere alle esigenze del territorio e di stringere legami con le istituzioni politico-amministrative e culturali che in esso operano.
            Non esistono dubbi sui positivi effetti del policentrismo per la ricchezza, diversificazione e pluralità delle iniziative di conservazione, di valorizzazione, di promozione e di coinvolgimento di un pubblico di tipo nuovo. D’altronde il policentrismo conservativo appare, dal punto di vista politico culturale, perfettamente coerente con i nuovi equilibri istituzionali post-centralistici o meglio post stato-centrici che si sono affermati negli anni Novanta del Novecento, anche se occorre riconoscere che non sempre alla disseminazione quantitativa dei soggetti pubblici e privati che detengono archivi (siano essi enti territoriali, enti pubblici di natura diversa, oppure istituti culturali) corrisponde un effettivo impegno a conservare gli archivi in maniera idonea né a renderli realmente fruibili, in conformità ai precisi dettami in materia del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in particolare dell'articolo 30. Anzi la crisi che stiamo attraversando ha visto un indebolimento di questo impegno. Inoltre, al di là delle difficoltà del momento, non possono essere ignorati alcuni limiti, probabilmente strutturali, del policentrismo, quali la duplicazione di iniziative che implica possibile od effettivo spreco di risorse, o il tendenziale abbassamento del livello qualitativo della produzione e dell'offerta culturale, causata dalla fragilità delle strutture che se ne fanno carico e da un accentuato localismo, ma soprattutto per il rischio che il policentrismo assuma le forme di una frammentazione sempre più esasperata e scarsamente motivata da ragioni storiche o culturali o dalla natura della documentazione conservata, una frammentazione che è disorientante per gli utenti e che impedisce una oculata gestione della conservazione e dell'iniziativa culturale.
            Che “il policentrismo va[da] (…) in qualche modo “governato”, se si vuole soddisfare le attese del pubblico nei confronti di ottimali servizi culturali”, lo sosteneva già Isabella Zanni Rosiello nella Prima conferenza nazionale degli archivi nel 1998, ponendosi una serie di domande che prospettavano in realtà concrete proposte per uscire da questa situazione di frammentazione conservativa:
È possibile che soggetti giuridicamente diversi e con alle spalle storie e tradizioni di prolungate separatezze accantonino una buona volta le loro specifiche rivendicazioni e mettano da parte i loro oramai estenuati e sterili corporativismi? È possibile che si predispongano, a livello territoriale (cittadino, metropolitano, provinciale, regionale che sia) dei luoghi conservativi, delle soluzioni organizzative, delle forme di coordinamento-cooperazione, in cui archivi, relativi o meno a uno stesso ambito settoriale e appartenenti o meno a soggetti giuridicamente affini, possano essere adeguatamente “valorizzati”?

Già allora, quindi, nell'individuare i limiti della disseminazione degli archivi all'interno di singoli territori, si faceva strada la proposta di sviluppare forme di collaborazione istituzionale che prevedessero anche la confluenza, all'interno di un medesimo istituto o polo archivistico, del patrimonio documentario detenuto dal soggetti diversi, a beneficio in primo luogo degli utenti.
Una più articolata definizione di polo è emersa nel dibattito che ha preceduto la seconda conferenza nazionale degli archivi del novembre 2009, all’interno della quale fu dedicata al tema una apposita sessione. Nel documento preparatorio della sessione emergevano, seppure implicitamente, due diverse concezioni o tipologie di polo archivistico. La prima ne sottolineava la natura di struttura fisica e di istituto di conservazione di tipo nuovo all’interno del quale prospettare una conservazione unitaria della documentazione di una determinata città, territorio o su una determinata tematica indipendentemente dalla natura giuridica e dalla affiliazione istituzionale dei soggetti conservatori e/o produttori della documentazione concentrata (stato, comuni, regione, province, soggetti privati ecc.). La seconda concezione batteva soprattutto l’accento sulla condivisione di servizi archivistici di vario genere all’interno di un determinato territorio o fra istituzioni specializzate nella conservazione della medesima tipologia di materiali quali archivi d’impresa, archivi di persona, archivi politico-sindacali, ecc. configurando quindi il polo come condivisione di servizi di rete (banche dati descrittive, archivi digitali, ecc.) tesi alla valorizzazione, alla apertura al pubblico e alla fruizione degli archivi.
L'Accordo per la promozione e l'attuazione del Sistema Archivistico Nazionale, siglato l'anno dopo tra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, le Regioni e le autonomie locali stabiliva all'articolo 3 che “Il Ministero  e Regioni, le Province e i Comuni promuovono (…) la costituzione di Poli archivistici di ambito regionale, territoriale o tematico”, precisando che “i Poli archivistici costituiscono forme organizzative per la gestione di strutture e di servizi archivistici”.
            Nei tre anni successivi alla conferenza è prevalsa una concezione un po' riduttiva del polo, visto soprattutto come “magazzino” o comunque struttura capiente per far fronte alla penuria di spazi fisici per accogliere la crescente massa di documentazione cartacea prodotta negli ultimi decenni anche a dispetto dei processi di dematerializzazione pronosticati. In questa direzione si è mossa anche la Direzione generale per gli archivi attraverso la creazione di ampi depositi, come il cosiddetto Polo di Morimondo in provincia di Milano, nel quale ci si propone di ospitare documentazione non solo statale, ma anche di altri soggetti e non solo proveniente da area milanese o lombarda, ma anche da altre regioni circonvicine.
            Con minore intensità, invece si è agito per dare corpo all'idea di Polo archivistico, come cooperazione interistituzionale per la condivisione di strutture, risorse, servizi culturali. Il problema degli spazi per la conservazione non può certamente essere sottovalutato. Ne abbiamo avuto conferma - se ce n'era bisogno – all'indomani del terremoto del maggio 2012, quando si sono incontrate grandi difficoltà nel reperire sedi nelle quali potesse essere ospitata la documentazione recuperata da comuni e parrocchie danneggiati e resi inagibili dal sisma. Non a caso è proprio da quelle difficoltà che è scaturita l'idea di promuovere un polo dove ospitare gli archivi delle aree terremotate almeno per il tempo necessario ad ultimare la ricostruzione degli edifici destinati alla loro conservazione. Il progetto ha potuto realizzarsi a Vignola grazie alla collaborazione della Soprintendenza archivistica per l'Emilia Romagna, della Direzione regionale dei beni culturali e paesaggistici e del Comune di quella città, che ha messo a disposizione un capannone, frutto di abuso edilizio, acquisito lo scorso anno. Nel polo, oltre all'archivio comunale di Vignola, saranno così ospitati archivi di vari comuni del modenese e del ferrarese e documentazione dell'Archivio di Stato di Modena, anch'esso pesantemente colpito dal sisma.
            Ma la condivisione di spazi di conservazione non esaurisce le potenzialità di collaborazione interistituzionale, implicita in una concezione a tutto tondo della politica dei poli che consenta non solo di sviluppare azioni di coordinamento fra le istituzioni archivistiche, ma anche di adoperarsi a contenere e a ricomporre il frazionamento conservativo, soprattutto quando questo ha scarse radici storiche e quando avrebbe invece forti motivazioni culturali la convergenza all'interno di un unica istituzione archivistica delle fonti che documentano, nel loro complesso e con accentuati caratteri sistemici, la storia di una città o di un territorio: basti pensare ad esempio agli archivi comunali e a quelli provinciali e di stato presenti in una stessa città oppure ad istituti culturali affini che conservano la medesima tipologia di documentazione. E' indubbio che tale ricomposizione appare oggi una impresa complessa, da molteplici punti di vista, non ultimo quello giuridico-istituzionale. Essa può realizzarsi solo se sostenuta da una forte e diffusa volontà politica, perseguita costruendo accordi, intese, collaborazioni fra stato, regioni, province, comuni e soggetti privati con l'obiettivo di creare poli archivistici intesi non come semplici, per quanto capienti magazzini, ma come istituti di conservazione di tipo nuovo.

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MUSEI ECCLESIASTICI E MUSEI CIVICI

Musei ecclesiastici e musei civici:
prove di dialogo
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Domenica Primerano
Museo diocesano di Trento

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Desidero anzitutto ringraziare la sezione di Bologna di Italia Nostra e in particolare la dott.ssa Bentini per avermi offerto la possibilità di partecipare a questo incontro, nelle cui motivazioni mi riconosco in pieno. Ma il ringraziamento è anche per aver offerto un’occasione di dialogo, di confronto, ad una realtà di cui sono testimone e parte attiva: mi riferisco ai musei ecclesiastici.
Una realtà variegata non solo per tipologia (musei parrocchiali, diocesani, del Tesoro del duomo, della cattedrale, ecc.) ma anche per le collezioni che vi si conservano: accanto a raccolte di arte sacra legate al culto e alla liturgia (prevalenti), questi musei possono includere anche collezioni naturalistiche (mineralogiche, paleontologiche, botaniche, zoologiche) e di strumenti scientifici. Si tratta per lo più, in questo caso, di raccolte legate alla funzione didattica rivestita da quei musei sorti all’interno di seminari o di collegi gestiti dagli ordini religiosi. Ma nei musei ecclesiastici troviamo anche reperti archeologici, manufatti artistici non necessariamente sacri, raccolte etnografiche e demo antropologiche, legate al territorio su cui gravita la singola istituzione, donate (soprattutto in tempi passati, quando si registrava maggiore senso civico) da studiosi, collezionisti, illustri esponenti della comunità locale, semplici cittadini.
Accanto ad una sezione ‘sacra’ i musei ecclesiastici possono dunque contemplare una sezione ‘profana’: è il caso, ad esempio, del Museo Diocesano Tridentino, il secondo museo diocesano sorto in Italia, dopo Bressanone, istituito nel 1879 (ricordo che entrambe le città facevano ancora parte dell’Impero Austro Ungarico, dove già erano attive analoghe istituzioni). Fondato nel 1903, il museo presenta nel suo primo catalogo (pubblicato nel 1907) proprio questa distinzione: arredi liturgici di differente tipologia e oggetti “di epoche diverse che possono interessare la storia o l’arte dei nostri paesi”. Ovvero: “oggetti preistorici, etruschi, romani, barbarici e dei tempi posteriori; rinvenimenti fatti negli scavi, monete, vasi, armi, anelli, sigilli, collane, aghi crinali, utensili domestici e d’arte, dipinti, libri, manoscritti, documenti, pergamene, storie patrie e monografie, incunaboli, pietre incise, bassorilievi, lapidi: in una parola, tutte quelle cose che si raccolgono nei musei di arte e di storia”. Ma, direi, soprattutto nei musei civici.
Ed è lo stesso direttore, Vincenzo Casagrande, a chiedersi (quasi volesse anticipare una possibile domanda da parte del lettore): “perché mai dovremo noi occuparci anche di arte profana?”. La risposta è chiara: per consentire agli allievi del Seminario teologico (per i quali il museo fungeva da palestra o, come diremmo oggi, da laboratorio didattico) di “completare la propria preparazione culturale e favorirne la formazione del gusto estetico”. Le conoscenze acquisite, aggiunge Casagrande, avrebbero consentito ai sacerdoti di vigilare consapevolmente non solo sui beni della propria chiesa, ma anche sul patrimonio presente in quel territorio.

Alcune considerazioni.
La prima: Casagrande parla di una formazione che, per essere tale, necessita di conoscenze complementari (arte sacra/arte profana). Rispondendo all’ipotetica domanda “perché dobbiamo occuparci anche di ciò che non ci compete”, questo sacerdote - che si avvicina all’arte da autodidatta ma con l’umiltà di chi ha piena consapevolezza dei propri limiti, tant’è che si avvale del sostegno di coloro che egli definisce “intendenti d’arte”, ci ricorda che conoscere non significa separare, ma stabilire relazioni.

La seconda considerazione: c’è una trama comune a musei civici e musei ecclesiastici. Anzitutto la presenza di collezioni miste; in secondo luogo il ruolo, più accentuato nei MC rispetto ai ME, delle  donazioni da parte della comunità e di privati cittadini; infine la casualità delle raccolte che, in entrambi i casi, non derivano da un progetto collezionistico predefinito, ma dalla necessità di ricoverare beni per garantirne la conservazione o per raccontare e custodire la storia di un territorio, di una comunità. Operazione che, sia nel caso dei ME come nel caso dei MC, presenta (come ben sappiamo) un prezzo molto elevato: uno strappo che produce inevitabilmente lo spaesamento e la perdita parziale di senso del bene sradicato dal proprio contesto.
Sradicamento prodotto da quel processo di musealizzazione che, per i musei ecclesiastici, scatta sotto forma di “deposito obbligatorio” per i beni non più in uso, stando a quanto stabilito dalle Norme per la tutela e la conservazione del patrimonio storico artistico della Chiesa, emanate dalla CEI nel 1974.  I cap. X e XI , che riguardano i musei, cercano comunque di definire i limiti di tale processo:
Le opere d’arte – vi si legge - devono restare possibilmente nei luoghi di culto  per conservare alle chiese, agli oratori, ai monasteri, ai conventi l’aspetto della fisionomia originaria di luoghi destinati agli esercizi di pietà. Se la conservazione nei luoghi  originari non è possibile, perché i beni non hanno più funzione di culto, o sia gravemente rischiosa, si istituiscano musei diocesani”.

Con queste parole si mette a fuoco una questione centrale:

         Il museo ecclesiastico riunisce beni di interesse religioso legati alla devozione, al culto, alla liturgia. Riunisce soprattutto arredi mobili ad uso liturgico.
         Per arredo si intende tutto ciò che è pertinente a un ambiente. ne costituisce il decoro e risponde ad una precisa funzione
         Nel momento in cui si sradicano i beni dall’ambiente per il quale furono realizzati e dall’uso che li caratterizzava, si produce una inevitabile perdita di senso
         La musealizzazione di conseguenza deve rendere comprensibile il nesso che si è spezzato: gli oggetti devono conservare e comunicare la memoria della funzione cui furono adibiti e del luogo per il quale furono realizzati. Facile a dirsi, più difficile da realizzare. Ma questa è la sfida alla è chiamato chi lavora in un museo, ecclesiastico ma anche di altra tipologia.

Ma quanti sono oggi i musei ecclesiastici, intendendo con questo termine i musei di proprietà di enti che fanno capo alla Chiesa Cattolica? Stando al rilevamento del 2011, effettuato sulle 16 regioni ecclesiastiche e le 255 diocesi italiane, sono 783 (ai quali si aggiungono le sacrestie aperte e visitabili) di cui:

·        266 musei di proprietà diocesana, che comprendono 218 Musei Diocesani (nel 1997 erano 105; altri  potrebbero essere aperti entro qualche anno)
·        296 musei parrocchiali (in Piemonte se ne contano ben 66; 31 piccoli musei parrocchiali in Val d’Aosta) – su 25.000 parrocchie
·        146 musei di ordini religiosi
·        45 tesori della cattedrale
·        27 musei dell’opera del duomo
·        19 musei di confraternite
·        18 musei di santuari
·        12 musei dedicati esclusivamente all’arte sacra contemporanea, un’attenzione – quella nei confronti della produzione artistica del nostro tempo - in lenta ascesa, basti pensare al Padiglione riservato quest’anno al Vaticano nell’ambito della Biennale d’arte di Venezia.

Infine 81 musei sono di proprietà mista, una scelta (l’annessione di musei ecclesiastici a istituti museali civici) scarsamente apprezzata dall’autorità ecclesiastica che teme si verifichi, senza un preliminare progetto condiviso, l’assorbimento tout court di beni da parte di un museo istituito con altri obiettivi. Il timore è che, nel tempo, possa venir meno la proprietà dei beni.
Andrebbe, a mio giudizio, appurato se all’aumento di istituzioni museali ecclesiastiche di cui si è dato conto corrisponde il rispetto di una procedura di musealizzazione corretta e prudente, effettuata cioè inserendo nel percorso espositivo solo opere dismesse o che realmente necessitano di essere ricoverate in un luogo sicuro. Diversamente la fondazione di nuovi musei finirebbe per tradursi in un depauperamento del territorio, mai auspicabile. Inoltre si ha la sensazione che alla creazione di nuovi musei non corrisponda una chiara consapevolezza circa le attività che devono accompagnare la vita dell’istituzione, per il cui espletamento occorre preventivare annualmente costi che non sono limitate alla semplice gestione.


Qual è la finalità di questi musei? Lo si deduce dalla Lettera circolare sulla funzione pastorale dei musei ecclesiastici emanata nel 2001 dalla Pontificia Commissione per i Beni Culturali ecclesiastici, nella quale si raccomanda che i musei non siano “depositi di reperti inanimati, ma perenni vivai”. Con tale affermazione si vuole ricordare che il museo, nato come deposito di beni dismessi, non può limitarsi ad espletare una semplice funzione conservativa, ma deve estendere la propria area d’azione anche a iniziative di ricerca scientifica, conservazione, restauro, educazione museale, comunicazione, che sono il principale nutrimento di un museo. Ma l’espletamento di tali funzioni non può essere affidato solamente a volontari, che portano con sé passione ed entusiasmo, ma non necessariamente una professionalità specifica; inoltre spesso questi musei sono diretti da sacerdoti alla cui dignità sacerdotale non sempre corrisponde quella professionalità di cui il museo ha bisogno. Anche per questo, per la mancanza di una qualsiasi dimensione museologica e di specifiche competenze professionali, raramente questi musei rispondono alle esigenze contemporanee. Ecco perché quando si pensa ad un museo ecclesiastico, lo si immagina come un luogo chiuso, polveroso, inaccessibile, dove il tempo sembra essersi fermato, una specie di sacrestia aperta in maniera precaria, provvisoria. Devo ammettere che, in troppi casi, i musei ecclesiastici sono effettivamente questo. Ma proprio perché allo stereotipo corrisponda sempre meno il dato di realtà, l’Associazione Musei Ecclesiastici Italiani sta lavorando intensamente. Il direttivo di cui faccio parte, eletto nel 2010, ha concentrato la propria azione sulla formazione di competenze organizzando, ad esempio, nel 2011 un importante convegno sull’educazione museale, preceduto da un’indagine sullo stato dell’arte dei nostri musei in tale ambito. E’ stato infine redatto un documento nel quale vengono indicate alcune linee guida da seguire nella progettazione di questa attività, tra le più importanti e delicate di un museo. Il documento è stato quindi discusso nelle riunioni dei coordinamenti regionali.

Ma torniamo agli obiettivi: la Lettera pastorale indica il ME quale sede del coordinamento delle attività conservative, della formazione umana e dell’evangelizzazione cristiana di un determinato territorio. E’ infatti l’istituto che “documenta l’evolversi della vita cultuale e religiosa” di una comunità, “conservando materialmente, tutelando giuridicamente, valorizzando pastoralmente il patrimonio storico-artistico non più in uso”; lo può fare anzitutto riconnettendo tali beni al contesto di provenienza, che poi quasi sempre è quello su cui il museo gravita, trattandosi di un museo locale. Il progetto di inventariazione dei beni ecclesiastici presenti nelle chiese delle diocesi italiane ha prodotto un data base molto utile per supportare i musei in questo loro compito.
Il documento afferma infine che il ME aiuta la comunità a comprendere “l’importanza del proprio passato, a maturare il senso di appartenenza al territorio in cui vive, a creare una coscienza critica”.
E’ facile dedurre che molti di questi obiettivi costituiscono un terreno comune tra musei ecclesiastici e musei civici, tra istituzioni che operano su e per il territorio inteso “come il tessuto connettivo nel quale si radica e si distribuisce il patrimonio culturale di una comunità, sistema complesso di segni e patrimonio esso stesso, luogo di costruzione e riconoscimento delle identità individuali e collettive, continuum spaziale e temporale dotato di qualità peculiari: materiali, storiche, simboliche, relazionali, estetiche” (Per l’educazione al patrimonio culturale. 22 tesi, a cura di A. Bortolotti, M. Calidoni, S. Mascheroni, I. Mattozzi, F.Angeli ed.Milano,2008, p.59). I nostri musei, insieme, sono chiamati a stringere un patto, un’alleanza strategica, con la comunità locale e il territorio. Un legame che non va mai inteso come univoco e definitivo ma in continuo cambiamento ed evoluzione, così come lo è la comunità che interpreta il patrimonio. Come ci ricorda Simona Bodo, nella società multietnica e multiculturale in cui viviamo, il patrimonio non può più essere inteso solo come un’eredità, un insieme di beni statici, sedimentati, di valore universale, ma una risorsa che ci aiuta a interrogarci, a relazionarci, a superare le barriere interpretative. Il patrimonio è un insieme da ricostruire nei significati, da ricollocare in uno spazio sociale di scambio. E in questo processo il museo ha una responsabilità ben precisa.
Se queste sono le coordinate entro cui muoversi, non possiamo svilire una missione così preziosa riducendo il museo a ciò che non è, costringendolo a essere ‘altro’, a indossare “la maschera svilente dell’effimero”, confezionando prodotti di facile consumo per catturare visitatori diventati clienti. Il museo non può rinunciare ad alcune delle sue funzioni essenziali per corrispondere alle esigenze “dell’homo televidens, successore dell’homo sapiens”, per citare Germain Bazin. Ad esempio la funzione di ricerca, oppure quella educativa, che è ben altro rispetto al semplice intrattenimento che ci può stare, certo, ma a fianco di attività di altro peso, a progetti che creino competenze, abilità, partecipazione critica da parte dell’utente.
La politica purtroppo, come ben sappiamo e come ci ricorda la Mottola Molfin, non ha ancora compreso “che il nostro futuro culturale sarà necessariamente presidiato dai musei locali: senza di essi, senza il richiamo all’identità che essi praticano per tutti noi, saremo tutti più indifesi di fronte alle sfide della globalizzazione e agli incontri e scontri con le culture altre che segnano indelebilmente questo nostro tempo. Il ruolo dei musei oggi in Italia è quello di essere risorse di identità.

Per questo il museo dove porre al centro le persone che abitano i luoghi, che hanno ereditato e costruito il paesaggio, ne hanno formato gli strati della memoria: la cultura non può essere pensata come un prodotto confezionato ad hoc per il turista. Le scelte politiche di questi ultimi decenni, premiando le mostre blockbuster, i “musei dell’iperconsumo”, edifici atterrati come UFO nelle nostre città, i sistemi museali basati esclusivamente su dinamiche gestionali e economiche, hanno di fatto indebolito “il museo del genius loci” e prodotto una forte ma inevitabile omologazione culturale. Come uscirne? Mi pare sia questa la domanda che oggi tutti ci stiamo ponendo.
La soluzione sta nella capacità di costruire alleanze tra i nostri musei, creando reti di sostegno reciproco per fare fronte comune alle scelte insensate che ci travolgono ed essere più forti nel rivendicare il nostro ruolo. Occorre costruire ponti e non barriere. La diversità infatti va letta e rivendicata come risorsa.
Ho intitolato il mio intervento: “Musei ecclesiastici e musei civici: prove di dialogo”. So benissimo che talvolta questo dialogo non c’è stato: la giusta esigenza di far valere la specificità dei nostri musei ha portato spesso le realtà museali ecclesiastiche all’isolamento. Vittorio Sozzi, responsabile del Servizio Nazionale per il Progetto culturale della CEI, al convegno AMEI di Susa del 2005 affermava: “Il museo ecclesiastico si pone lontano dal modello dei musei del consumo culturale di massa che finiscono per comunicare anzitutto se stessi. Si distanzia anche dalla definizione di museo dell’ICOM. Perché in esso non c’è solo studio, conservazione, educazione, diletto. Le motivazione da cui nasce sono ulteriori e in gran parte radicalmente diverse.” Credo sarebbe stato più produttivo affermare che i nostri musei condividono la definizione ICOM di museo, ma la integrano con altre finalità: perché invece marcare la distanza che dovrebbe separarci da altre istituzioni museali? Perché utilizzare espressioni che segnalano la volontà di distinguersi e, in fondo, di isolarci?
Lo stesso ragionamento credo sia applicabile all’idea di museo che chi opera in un ente ecclesiastico deve maturare. Ci siamo mai chiesti perché si respira un atteggiamento di diffidenza nei confronti dei ME? Perché i visitatori entrano più facilmente in un museo pubblico che, pure, espone per lo più opere d’arte sacra? Perché percepiscono un modo diverso di presentare l’opera; perché in quel contesto le opere sono comunicate senza intenti apologetici; perché lì il visitatore non sente un condizionamento ideologico. La presentazione, se non vuole limitarsi ai soli credenti, non deve essere condizionata da una spinta missionaria o dalla pretesa di influenzare il visitatore e il suo accesso all’immagine. Ritengo infatti che in un ME l’accesso e la presentazione delle opere dovrebbe prendere in considerazione proprio coloro per i quali la prassi e la terminologia dell’ambiente ecclesiastico è sconosciuta o è diventata estranea e quelli che, nel loro modo di percepire, sono allergici ad ogni condizionamento, reale o presunto. Sono convinta che un ME debba diventare una sorta di ponte tra chi crede e chi no; un luogo capace di promuovere un approccio interdisciplinare all’opera d’arte sacra, offrendo al visitatore la possibilità di interpretarla utilizzando più chiavi di lettura. In questo consiste il suo compito formativo.
Tornando all’ipotesi di ‘fare rete’ (parola talmente abusata da diventare vuota di significati reali) in ambito canonico non esiste una vera e propria normativa al riguardo. Nella cittata Lettera della Pontificia Commissione del 2001, al punto 3.6 “Rapporti con altre istituzioni” si dice semplicemente che “occorre prevedere e sollecitare rapporti con altre istituzioni culturali, in particolare con musei pubblici e privati. Tale collaborazione deve essere attuata garantendo l’autonomia dei singoli enti e stimolando l’elaborazione di progetti comuni a vantaggio dell’animazione culturale del territorio.” Mons. Santi, presidente AMEI, nel suo recente volume I musei religiosi in Italia, sostiene che ha assoluta priorità fare rete con enti ecclesiastici (musei, archivi, biblioteche) rispetto ad enti altri e che spetta al Museo diocesano ungere da punto di riferimento per tutte le altre realtà museali ecclesiastiche. Santi prevede che i ME collaborino con altri musei ma a condizione che siano identificati gli obiettivi comuni e singole responsabilità; che ciascuno mantenga la propria autonomia e missione. Aggiunge che si possono fare accordi (scritti) su servizi comuni (bigliettazione coordinata ecc.) ma che occorre evitare forme di cogestione, commistione, “confusione”: “nulla impedisce – scrive – ai ME di collaborare alle iniziative di tali reti (provinciali ndr) ma è necessario che ciò avvenga con l’assenso dell’autorità canonica, salvaguardandone l’autonomia gestionale e culturale e le relazioni primarie nell’ambito ecclesiastico”. Di questi temi gli associati AMEI discuteranno ad Assisi nel IX convegno incentrato appunto su reti e sistemi. Mi auguro che qualcosa di più si potrà pensare e dire riguardo alla possibilità si cooperare con gli altri musei di interesse locale.
A mio parere infatti dobbiamo sforzarci di intrecciare relazioni virtuose tra i nostri musei, tra musei e istituzioni culturali presenti sul territorio (archivi e biblioteche anzitutto). Occorre costruire reti che si pongano obiettivi di tipo culturale, e solo in seconda istanza economici. Partendo dalle specificità che ciascuna istituzione esprime, possiamo rompere le separazioni interpretative, iniziare a pensare “al plurale”, così da restituire una lettura complessa, contaminata, del territorio in cui operiamo.
Ma credo sia altrettanto importante evitare di farsi mettere nell’angolo, offrendo il destro a chi ci accusa di attardarci su logiche elitarie e autoreferenziali. Il nostro modello di museo, come si è visto, non è quello di un luogo di esclusione, pensato da esperti e destinato ad altri esperti. Il museo a cui pensiamo è un museo “relazionale” che sappia porsi in ascolto del pubblico, che sia capace di utilizzare le nuove tecnologie e gli strumenti del marketing culturale, ma non incondizionatamente. Oggi ci viene richiesto uno sforzo ulteriore: interpretare la realtà, ascoltarne e scrutarne contenuti e aspirazioni; dare forma a questa realtà, comunicarla. Ma alla base di questo complesso programma c’è la volontà e la capacità di costruire esperienze condivise, come quella in cui oggi tutti noi siamo impegnati.

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